Il doping visto dagli occhi di un maresciallo dei Nas

Distruzione dell’etica sportiva, gravi danni alla salute: il doping è causa di non pochi mali. Ma dove vengono prodotte le sostanze dopanti, e come si possono contrastare? I Paesi che producono i principi attivi utilizzati in queste sostanze sono solitamente dittature, prima fra tutte la Cina. Da qui nascono notevoli difficoltà nella lotta al traffico internazionale di farmaci dopanti.

Nelle dittature, la vittoria di medaglie nelle competizioni è considerata particolarmente importante per l’immagine della nazione. Inoltre, da un lato questi Paesi tendono ad avere esigenze impellenti di ordine interno (o persecuzioni da gestire) che rendono la lotta al doping assai poco prioritaria, e dall’altro il doping può appunto aiutare a vincere medaglie e ad acquisire prestigio internazionale. Naturalmente, lo stesso bisogno di visibilità a livello internazionale potrebbe valere più o meno per tutti i Paesi del mondo, ma nelle democrazie il governo ha molto meno potere, e l’interesse del cittadino – in questo caso la salute pubblica – esercita una forte pressione sui leader eletti.

Il maresciallo Renzo Ferrante dei Nas (il Nucleo Anti Sofisticazioni dell’Arma dei Carabinieri), è un professionista della lotta al doping e spiega che – secondo la sua esperienza – il fenomeno della produzione di farmaci dopanti può essere suddiviso in tre categorie: quella dei farmaci che hanno scopo medico ma che possono essere utilizzati anche come doping; quella delle strutture altamente specializzate che producono illegalmente sostanze dopanti ma seguendo standard di qualità; e quella di personaggi poco puliti che realizzano farmaci in condizioni non solo illegali ma anche inadatte e precarie.

Il secondo tipo di produzione è molto facile da scovare e generalmente ha luogo in Paesi dell’Est, in cui le autorità sono meno attente al fenomeno (quando non sono addirittura compiacenti): «Sono pochissimi i Paesi nel mondo che hanno una legislazione penale che punisce l’utilizzo di queste sostenze – dichiara Ferrante – L’Italia è tra quegli Stati, siamo tra i pochissimi che l’hanno. Il traffico di queste sostanze è, bene o male, reato quasi in tutto il mondo».
Ma «mentre in Italia il problema viene affrontato immediatamente, vi sono Stati in cui far chiudere gli occhi a chi è preposto al controllo in certi posti, è molto facile […] C’è proprio la facilità di pagare per far tenere gli occhi chiusi. Chiaramente, nei Paesi dove le paghe dei poliziotti e delle autorità pubbliche sono da fame o poco più, ci vuole veramente poco a garantirsi l’impunità pagando».

Quindi produrre i principi attivi di sostanze dopanti in Italia è estremamente difficile, ma lo si può fare molto facilmente in Cina o nei Paesi dell’Est europeo, per poi produrre il farmaco vero e proprio in qualche industria e infine spedirlo anche in Italia.
Nei Paesi democratici, tra l’altro, le forze di polizia non possono controllare la corrispondenza privata dei cittadini senza una specifica autorizzazione della magistratura emessa su fondato motivo; quindi queste sostanze possono essere spedite in normalissime buste da lettera.

Per contrastare il fenomeno del doping è quindi necessaria una collaborazione tra Stati. Ma come spesso accade, quando c’è di mezzo la Cina, la cosa non è facile: «Parliamo di un Paese che non è indicato, a livello di cooperazione internazionale sulla specifica materia, tra i più collaborativi – afferma il maresciallo Ferrante – forse perché in particolare la produzione di materie prime farmacologiche costituisce un asset industriale importante, non sono pronti a sacrificarlo».

Tuttavia, «siccome la Cina è un Paese che ha una sua rappresentatività nello sport ufficiale anche a livello olimpico, le Autorità sportive, come ad esempio la World Anti-doping Agency, possono pretendere che non si sottragga ai propri doveri di collaborare alla lotta al doping per non perdere rispettabilità in questo contesto».

L’assunzione di sostanze dopanti prodotte senza seguire corretti standard, può avere conseguenze molto gravi sulla salute. La cosa non riguarda semplicemente gli atleti professionisti, ma anche i body builder dilettanti e chiunque voglia farsi crescere i muscoli in modo rapido e innaturale.
«Per quanto riguarda per esempio gli steroidi anabolizzanti, abbiamo registrato molti casi di infezioni gravi, addirittura recentemente casi di sepsi, quindi di diffusione in maniera massiva nell’organismo di infezioni anche con il rischio della vita. È capitato più di un caso come questo, perché la sostanza era stata prodotta in strutture che non garantivano standard di sterilità, e quindi essa stessa si trasformava in veicolo di infezione. Pertanto, il culturista che si andava a iniettare lo steroide anabolizzante nel muscolo, si procurava un’infezione e una necrosi del muscolo stesso, con il rischio di diffusione a tutto il corpo e di perdere la vita», spiega il maresciallo.

Quantitativamente, il settore che richiede più sostanze dopanti è quello dei culturisti o body builder, dal momento che gli sportivi normalmente fanno uso di sostanze in microdosi, per migliorare le prestazioni di gara; il culturista, invece, deve ingigantire i suoi muscoli per una gara, o per piacersi/piacere, e usa quindi dosi «veramente massicce» di steroidi. Principalmente si parla di steroidi anabolizzanti e peptidi, tra cui l’ormone della crescita e le sue evoluzioni.

E se nello sport c’è ancora chi riesce a gareggiare senza doparsi, «praticamente il mondo del culturismo è dominato dal doping. È quasi un’equazione – sostiene Ferrante – perché certi livelli di incremento muscolare non si possono ottenere naturalmente, vanno oltre l’incremento fisiologico del muscolo» (possono fare eccezione le categorie di culturismo cosiddette ‘natural’).

IL DOPING ALLA LUCE DEL SOLE

Reperire sostanze dopanti è molto semplice. Basta cercare su Google il nome di un farmaco e si troveranno numerosi siti che lo vendono; e se si tratta di piccole dosi, verranno spedite in una normale lettera, e non potranno essere oggetto di controlli. Il doping non ha quindi bisogno di nascondersi nel ‘deep web’, come le armi o la droga. Si vende alla luce del sole.

Chiudere i siti può aiutare? «È impensabile ‘chiuderli’», afferma il maresciallo. Innanzitutto il sito avrà sede in un Paese con una legislazione favorevole («o che comunque tollera») e quindi al massimo si può inibire l’accesso del sito dall’Italia. Ma si risolve poco.

«Lei ne inibisce uno?… È come svuotare il mare con il cucchiaio. Sono milioni. Sono dinamici: aprono, chiudono, a volte stanno online per un tempo limitato, cambiano server, cambiano provider, migrano, cambiano nome eccetera. È talmente facile creare un sito internet commerciale o in maniera gratuita che è impensabile fermarlo in questo modo».

Cosa si può fare allora? Come per il contrasto del traffico di droga, la strategia deve puntare ai pezzi grossi, piuttosto che agli ‘spacciatori’ locali. Ed è necessaria e auspicabile ogni forma di collaborazione internazionale possibile. Alcuni esempi di questo ci sono stati, ma c’è ancora molta strada da fare. In questo senso, le parole d’ordine suggerite dal maresciallo Ferrante sono un buon punto di partenza: «mai smettere di tentare», e «cerchiamo di essere ottimisti».

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