Luci e tenebre della moda viste dagli occhi di Ilaria Caprioglio

Quello della moda è un mondo in cui coesistono «luci e ombre»; un mondo di sicurezze e di tranelli, un mare in piena agitazione in cui se non si è abbastanza lucidi da assumere il controllo, è molto facile affondare. Questo lo sa bene Ilaria Caprioglio, modella di fine anni 80, che ha aperto una finestra su questo universo dell’immagine e su tutto ciò che lo circonda.

Oggi l’ex modella Ilaria Caprioglio è avvocato, vicepresidente dell’associazione ‘Mi nutro di vita’, che si occupa di promuovere un corretto stile di vita e di sensibilizzare sui disturbi del comportamento alimentare. È anche autrice di saggi e promotrice nelle scuole di progetti di sensibilizzazione sugli effetti della pressione mediatica e sulle insidie del web. Epoch Times l’ha intervistata.

Lei che l’ha vissuto pienamente, ci può descrivere l’ambiente della moda?

«L’ambiente della moda è un ambiente di lavoro, punto. Con le sue regole, che sono anche ferree, però è un ambiente di lavoro particolare, perché ci sono gli adulti e ci sono ormai le bambine».

«A 18-19 anni avevo vinto un concorso che si chiamava ‘Supermodel of the world’ indetto da Eileen Ford; avevo vinto in Italia la fase italiana e poi la fase internazionale che si era svolta a Los Angeles e mi ero trovata di punto in bianco in questo mondo, completamente sganciato dalla famiglia e dai riferimenti famigliari, perché è una vita che gira vorticosamente, e tu viaggi, fai le permanenze all’estero e ovviamente la famiglia non può seguirti. Quindi c’è già questa difficoltà per una giovane. Immagina una ragazzina piccola così in un mondo dove ci sono adulti; ci sono adulti seri, come gli agenti delle agenzie serie, e ci sono anche tanti che si professano agenti ma sono invece loschi individui».

«Abbiamo fotografi seri, abbiamo stilisti, giornalisti di moda, tutte persone serissime, ma poi abbiamo una variegata ‘fauna’ di persone che gravitano attorno a questo mondo che ai miei tempi si chiamavano ‘i modellari’; persone che gravitano nei backstage delle sfilate o durante i party che si svolgono a New York, Milano, Parigi, o Londra, che sono veramente pericolosi per una ragazzina, perché lì gira di tutto, e questo si sa, non dico cose nuove. La mia esperienza l’ho sempre definita con luci e ombre. Le luci sono sicuramente i viaggi, le permanenze all’estero, che comunque ti arricchiscono, la prima indipendenza economica… Ma le ombre ci son state, come la solitudine e il disturbo del comportamento alimentare».

«Mi sono ammalata sia di anoressia che di bulimia, e c’è comunque un ambiente dove tu sei un corpo che deve rendere, punto. Nel momento in cui tu non hai più quelle peculiarità corporee, che sono semplicemente delle misure, sei fuori, cioè ti mettono in stand-by; e non è che poi ti chiedano che cosa ti è successo. Il lavoro è lavoro, il business è business, Ma qua si lavora con delle minorenni e noi non dobbiamo dimenticarcene. Io in un mio saggio, Senza limiti, ribadisco sempre questa cosa: che ormai c’è il mercato delle baby modelle, che sono delle bimbe di 8-9 anni; è un mondo importante da rispettare come business, però ha un difetto: che ci sono delle modelle che sono sempre più giovani. E questo è sbagliato».

Perché il canone di bellezza che passa nella moda deve essere questo standard della magrezza?

«È stato un po’ un lento scivolare verso l’assottigliamento delle taglie: siamo passati dagli anni 80, in cui facevo la modella io, dove la taglia era la 42 e l’età media di una modella erano 18-19 anni – adesso i 18-19 anni sono ormai l’età della pensione – fino a oggi dove purtroppo le taglie lentamente sono scese arrivando fino alla 38. Adesso si cercano modelle sempre più giovani, con i corpi sempre più acerbi e visi non segnati dal tempo, perché a 14 anni una modella è ancora una bambina. Le modelle, per via della forte pressione mediatica, veicolano questa idea di bellezza che è equiparata alla magrezza».

«Nel fashion system, gli stilisti continuano a ribadire che devono essere le creazioni sartoriali che devono risaltare, e per questo motivo stanno facendo completamente scomparire chi le indossa. C’è da dire un’altra cosa: più i corpi sono magri e più effettivamente i vestiti cadono meglio, non ci son più forme; in una sfilata ci sono gli stand con gli abiti per un certo numero di modelle, ma queste modelle sono intercambiabili, non hanno le loro peculiarità corporee, quindi una vale l’altra, ed è anche quindi proprio una questione di velocità, perché ormai ci siamo velocizzati in tutto. Non è più come un tempo dove lo stilista aveva la sua modella musa e cuciva addosso alla modella. Adesso è tutt’altra cosa».

Quand’è nata questa idea della bellezza equiparata alla magrezza?

«Già negli anni 80 c’era questa idea. Anche se negli anni 80 c’erano ancora le supermodel. Posso citare per esempio Linda Evangelista, Monica Bellucci, che comunque avevano le loro peculiarità corporee molto precise, e c’erano quelle più formose e quelle meno formose. Pian pianino verso gli anni 90 si è arrivati a una modella quasi somigliante a un maschio, ma un maschio molto magro e molto emaciato. Sfilavano ragazze non solo molto magre ma anche di carnagione chiarissima, quasi malate. E online ha iniziato a nascere questo movimento, questa Thinspiration, nato in America a fine anni 90 e che promuoveva positivamente questa correlazione tra sottopeso e accettazione sociale».

A quali problemi può portare questa correlazione?

«È un qualcosa di importante e da non sottovalutare. Anche a causa di Photoshop, queste modelle le rendono sempre più irraggiungibili, sempre più magre, e infatti su piattaforme come Instagram o Pinterest vediamo i selfie di queste giovani che ormai hanno corpi anoressici».

«Ma la cosa che ci tengo a dire è sempre questa: non possiamo dire che le modelle sono anoressiche, che hanno un disturbo del comportamento alimentare, perché non è assolutamente vero. La cosa invece vera dal mio punto di vista, è che questi modelli corporei che ci vengono continuamente veicolati attraverso i cartelloni e le immagini pubblicitarie online, sicuramente condizionano le nostre figlie. Perché aprono una rivista e si rendono conto che per valere qualcosa ed essere accettate devono aderire a quei modelli. Quindi sicuramente questa pressione mediatica sta facendo un po’ di danni. Che poi i disturbi del comportamento alimentare siano dovuti anche ad altro, ad altre cause come quelle psichiatriche e psicologiche, è verissimo. Però bisogna alzare un po’ l’asticella dell’attenzione su tutti quei disturbi del comportamento alimentare che sono finiti sotto soglia: cioè quei disordini alimentari che non vengono mai medicalizzati, perché non sono ancora riconosciuti come tali, e che però portano gli adolescenti a vivere male la loro età, proprio perché il valore etico ha ceduto il posto a quello estetico, e ha quindi influenzato veramente anche la condotta alimentare».

«Giovanni Sartori diceva che c’era l’homo sapiens un tempo e poi è arrivato l’homo videns con la televisione. Adesso con il web siamo al totale smarrimento, siamo solo immagini: andiamo in un luogo non lo guardiamo ma lo fotografiamo, facciamo qualcosa, e ci fotografiamo, proprio perché dobbiamo aver impatto visivo, solo quello. Non ci soffermiamo più su nulla».

«Inoltre ci sono economisti come Hamermesh, per esempio, che hanno fatto degli studi e hanno visto come l’essere belli e l’essere magri, porta anche a buste paga paradossalmente più pesanti. Ovvero le donne arrivano a guadagnare l’8 per cento in più e gli uomini il 4 per cento in più».

«Il lavoro che facciamo con le scuole in giro in Italia e con questi saggi che scrivo, è quello di far comprendere innanzitutto che siamo arrivati a un’uniformità generazionale che è preoccupante. Ovvero da una parte abbiamo bambini adultizzati precocemente: abbiamo questa adolescenza che arriva sempre prima, dagli 8 o 9 anni. A quell’età un tempo c’era la pubertà, adesso c’è già l’adolescenza, perché il bambino è subito un piccolo adulto che fa tutto, mille esperienze, senza però avere la testa ad accompagnarlo; dall’altra parte abbiamo dei genitori, degli adulti, che sono adultescenti, eterni Peter Pan. Non sanno prendersi la responsabilità di un adulto, non sanno dare neanche un modello di riferimento che sia alternativo a quello della pressione mediatica. Ad esempio se tu hai 12-13 anni e vuoi essere bella come l’ultima modella o l’ultima fashion blogger, e magari ti metti a dieta e poi a 18 anni vuoi anche farti il primo ritocchino di chirurgia estetica, la mamma magari ti dice no. Ma se quella mamma è la prima che soffre di bulimia e la prima che si è fatta mille ritocchi, allora ecco che la mamma non ha più credibilità; questo è un punto».

«Il secondo punto è che deve passare il messaggio che l’autonomia, il valore di un ragazzo non è assolutamente fondato dai like che riceve sui social network, e questa autostima del ragazzo si crea in famiglia. Se il ragazzo in famiglia non è ascoltato, se in famiglia non c’è per esempio una convivialità durante i pasti perché si cena sempre davanti al televisore, sempre col cellulare acceso e quindi si spegne il dialogo, il ragazzo non si allena fin da piccolo a esprimere i propri sentimenti. Ed ecco che alcuni passano una vita online a chattare magari con emeriti sconosciuti, ed è ovvio che gli sconosciuti lo accolgano nel gruppo solo se lui è omologato a questo gruppo; quindi bisogna aiutarli a crescere facendo loro comprendere che hanno tutto il diritto di essere umani, quindi di sbagliare. Tante volte noi genitori (anche io ho tre figlie) tendiamo a chiedere troppo ai figli; in America hanno coniato il termine ‘overparenting’, ovvero richiedere continuamente di essere campioni in tutto, campioni nello sport, nel sociale».

«Da una parte c’è questo, che è pesante: questa continua pressione del genitore verso l’essere il numero uno. Dall’altra, i genitori non aiutano a scontrarsi con il ‘no’, con la regola, con il limite. E se non aiuti un bambino, poi adolescente e adulto, a scontrarsi con la frustrazione, con l’errore, non l’aiuterai a sviluppare quella resilienza che è fondamentale nella vita, cioè quella capacità di piegarsi senza spezzarsi davanti agli eventi difficili che poi la vita ti propone; quindi cerchiamo veramente di nutrire i nostri figli di relazione, di relazione vera, non di parole vuote. È fondamentale».

«Ormai viviamo in una società, e l’abbiamo costruita noi, dove il narcisismo, il consumismo, la competizione, sono i nostri tre valori fondanti. Mentre un tempo l’anima e il corpo erano un tutt’uno, adesso abbiamo assistito a questa scissione di anima e corpo. Mentre un tempo si guardava solo all’anima, adesso il corpo si è preso una grande rivincita, ha assunto un po’ un ruolo centrale nella costruzione dell’autostima di un individuo. Individui che sono tutti affetti dal morbo del giudizio estetico, per via della pressione mediatica».

«Il nostro aspetto è divenuto la misura principale del nostro valore, che dobbiamo esibire sia nel mondo reale che in quello virtuale, e in questo mondo non c’è più spazio per le persone diverse, per le persone non omologate, per quelle che sono magari malate di timidezza e non di protagonismo, queste vengono ‘assaltate’. Sono persone che veramente non possono assolutamente vivere più in questa società, quindi secondo me la parola chiave è rispetto. ‘Rispettare’ dal latino significa fermarsi a guardare e rivedere la persona che hai davanti con le sue differenze; quindi alleniamo i nostri figli, ma alleniamo anche noi stessi a tirar fuori queste emozioni, a manifestarle, perché se noi le manifestiamo non andremo poi a cercare una consolazione che può derivare dal cibo, da vari siti, dalle droghe, dal fumo, da condotte ormai senza limiti e deviate».

Cosa ne pensa delle nuove modelle formose?

«Bisogna promuovere l’idea che non dobbiamo essere tutti uguali, l’idea che qualsiasi peculiarità corporea va bene, finché è però sana, perché poi si rischia di passare dall’altra parte, ovvero dire ‘grasso è bello’. È un po’ il problema delle modelle curvy».

«A livello di agenzie di modelle, tradizionali, sono viste un po’ come una strategia di marketing, ovvero ci sono sempre più persone in sovrappeso, obese, e di conseguenza, il marketing va dietro anche a questo. Quindi bisogna avere anche le modelle che presentano e pubblicizzano quegli abiti. Non è un qualcosa che voglia esprimere un altro valore: stanno marcando con dei valori etici un qualcosa che è puramente commerciale. In Italia queste modelle ‘curvy’ hanno delle taglie leggermente inferiori rispetto a quelle americane, ma queste ultime sono veramente ai limiti dell’obesità: non si parla di sovrappeso ma di obesità. Allora facciamo molta attenzione, perché poi lì di nuovo ritorniamo alla malattia. È il paradosso di questa società: da una parte abbiamo i disturbi del comportamento alimentare, che sono la seconda causa di morte fra le adolescenti dopo gli incidenti stradali; dall’altra abbiamo oltre quasi 2 miliardi di persone in sovrappeso nel mondo».

Intervista rivista per brevità e chiarezza.

I punti di vista espressi in questo articolo sono le opinioni dell’intervistato/a e non rispecchiano necessariamente il punto di vista di Epoch Times.

 
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