Il Grexit e la fine dell’euro

Un’uscita della Grecia dall’euro potrebbe portare alla fine della moneta unica europea. Il Presidente della commissione europea Juncker, ‘spaventato’ dall’intransigenza di Tspiras, riesce in extremis a tenere il premier greco al tavolo delle trattative, ma il referendum indetto dal governo di Atene continua a tenere tutta l’Europa col fiato sospeso.

Perché la posta in gioco non è solo il Grexit: a essere a rischio sono l’esistenza stessa dell’euro e la stabilità dell’intero continente europeo.

Il premier greco Alexis Tspiras, d’altronde parla chiaro: il tempo delle imposizioni e degli ultimatum-ricatto alla Grecia è finito. Nell’annunciare il referendum del prossimo 5 luglio, Tspiras non usa mezzi termini: «Ci hanno chiesto di accettare pesi insopportabili, che avrebbero aggravato la situazione del mercato del lavoro e aumentato le tasse: vogliono umiliarci».

Va in effetti sottolineato come il Parlamento di Atene non abbia approvato una consultazione popolare per un’eventuale uscita dall’euro: il referendum greco serve a decidere se la Grecia debba o meno rispettare i diktat della finanza internazionale.

La crisi greca, mette perciò l’Europa di fronte a una sorta di crisi di democrazia. Un simile referendum – specie in questo momento – dimostra infatti quanto non si tratti più di una ‘semplice’ questione economico-monetaria, ma piuttosto di un problema di una sovranità nazionale e un’autodeterminazione che la Grecia evidentemente percepisce minacciate.

Si capisce, quindi, perché il tono con cui Tsipras ha chiesto al suo popolo di votare “no” al referendum, suoni come quello delle decisioni irrevocabili: «E’ venuto per loro il momento della verità: vedranno che la Grecia non si arrende. Vedranno che la Grecia non è un gioco cui si può mettere fine. Sono certo che il popolo greco sarà all’altezza delle storiche circostanze e risponderà con un forte “no” all’ultimatum».

L’ETERNO DILEMMA ECONOMIA-DEMOCRAZIA

Al di là delle gravi implicazioni politiche, dal punto di vista economico è chiaro come, nel caso del Grexit, il problema non sia l’euro in quanto tale, quanto piuttosto i disastri (non necessari, come vedremo tra poco) causati dall’unione monetaria europea per come è stata concepita nel Trattato di Maastrich del 1992.

Per comprendere cosa vi sia dietro il Grexit – e tutti i connessi pericoli di pace e stabilità in Europa da più parti ventilati – è quindi necessario fare un passo indietro, e accettare quello che ogni buon economista sa bene: fin dalle sue origini, l’euro non è stato altro che uno strumento economico utilizzato a fini politici.

Benché non sia una materia di per sé difficile, l’economia appare spesso complessa e a volte contraddittoria. Ma, fra gli economisti, fortunatamente c’è anche chi sa essere chiaro e spiegare le articolate dinamiche della politica economica europea in modo comprensibile a tutti. Un ottimo esempio di chiarezza è Paul de Grauwe – docente alla London School of Economics ed editorialista del Financial Times – che, insieme a Paul Krugman e a pochi altri, è unanimemente riconosciuto come uno dei maggiori economisti al mondo. 

L’EURO NON PUO’ FUNZIONARE PERCHE’ L’EUROPA NON È UN’AREA VALUTARIA OTTIMALE

Ascoltando le parole del professor de Grauwe, risulta difficile dare torto al premier greco Alexis Tspiras: «L’unificazione monetaria è figlia di impeti politici piuttosto che di valutazioni di carattere economico» spiega l’economista, che poi tronca: «In altre parole, non dovevamo fare l’euro».

Insomma gli europei – greci, spagnoli, portoghesi e italiani in testa – starebbero oggi pagando il (caro) prezzo di scelte geopolitiche che nulla hanno a che vedere con i tanto sbandierati benefici economici che, a suo tempo, sono stati uno dei pilastri della creazione dell’euro. Un progetto di moneta unica che, già una quindicina di anni fa, de Grauwe nei suoi manuali dimostrava essere del tutto inadatto alla situazione europea.

«Ormai è evidente quanto l’Europa non sia un’area valutaria ottimale: non risponde ai requisiti di omogeneità dei mercati del lavoro e non c’è sufficiente solidarietà per compensare le divergenze» spiega infatti de Grauwe in un’intervista rilasciata pochi giorni fa alla Testata The Post Internazionale.

LA FINE DELL’EURO

Il principio di base è semplice: Paesi con tassi di inflazione diversi, Pil e redditi medi pro-capite diversi e sistemi fiscali diversi, non costituiscono un’area valutaria ottimale. Cioè non esiste alcuna possibilità che possano riunirsi con successo sotto una stessa moneta.

L’unica possibilità di successo in uno scenario come quello europeo, sarebbe stato l’affiancamento alla moneta unica di un euro-bilancio unificato (altrimenti noto come transferunion).

«L’Europa è a un bivio» dice Paul de Grauwe: «O si va nella direzione di una maggiore integrazione fiscale, oppure è meglio che ognuno vada per la propria strada. E, con una Grexit sempre più vicina, la seconda ipotesi mi pare la più probabile». Dopo tredici anni di moneta unica, la fine dell’euro sarebbe ormai dietro l’angolo.

Il fallimento dell’euro per de Grauwe è in sostanza fondato su due precisi fattori: un bilancio non unificato (e quindi l’impossibilità di ridistribuire il reddito dai Paesi europei più ricchi verso le zone depresse) e un ruolo insufficiente della Banca Centrale europea (Bce).

TRANSFERUNION: UN BILANCIO UNICO EUROPEO PER SALVARE L’EURO (E L’EUROPA)

«I vantaggi di un’unione fiscale sarebbero molteplici» spiega infatti il professor de Grauwe: «Non solo si supererebbe il problema del rifinanziamento dei debiti, attraverso la condivisione del rischio, ma la centralizzazione potrebbe neutralizzare gli shock asimmetrici all’interno dell’area euro con dei trasferimenti fiscali».

Tradotto: chi produce di più ed è più ricco, deve necessariamente trasferire parte della propria ricchezza/potere di acquisto a chi è più povero: «Come avviene in Italia fra il nord e il Mezzogiorno, per capirci, o anche nel mio Paese, il Belgio» chiarisce de Grauwe.

Ma, con un bilancio unico europeo, sarebbe senz’altro lecito il timore del cosiddetto rischio di azzardo (in sostanza: le aree depresse, finanziate da quelle più ricche, tenderebbero ad adagiarsi sugli aiuti impiegandoli nella spesa corrente – clientelismi di vario genere inclusi – piuttosto che sfruttarli per favorire le attività produttive).

Naturalmente, non si tratterebbe di mantenere dei parassiti, come tanto superficialmente si sente spesso dire: «Ai detrattori [del bilancio unificato, ndr] sfugge che a livello europeo il rischio di azzardo sarebbe molto più contenuto: mentre nelle singole nazioni il budget unificato medio è attorno al 50 per cento, a livello europeo sarebbe rivoluzionario arrivare al 10-15 per cento partendo dall’1 per cento attuale. Oggi manca la volontà politica, ma nel lungo termine la cessione di sovranità è l’unica via per restare uniti».

PER LA BANCA CENTRALE I TITOLI DI DEBITO CHE ACQUISTA DALLO STATO SONO UNA MERA «CONVENZIONE CONTABILE»

«I Paesi dell’Eurozona si trovano in una condizione di grave fragilità nei confronti dei mercati finanziari, perché sono costretti a emettere debito in una valuta che non controllano e non hanno una Banca Centrale che possa intervenire sul mercato del debito stesso».

Il secondo problema che il professor de Grauwe individua, quindi, è la limitata possibilità di azione della Bce. Perché per una Banca che lavori al servizio dell’economia, il problema del debito non esiste: «La Banca Centrale può permettersi di coprire buchi di bilancio a costo zero [dopo che sono serviti a immettere la necessaria moneta nel sistema, i titoli di Stato emessi dal ministero dell’Economia – che in concreto costituiscono il debito dello Stato – perdono di ogni vera utilità, ndr]».

È così semplice che molti faticano a crederci: «Gettando i bond divenuti carta straccia nel tritacarte, la Banca Centrale non danneggerebbe nessuno» sottolinea de Grauwe.

L’editorialista del Financial Times non potrebbe essere più chiaro ed esplicito: il famigerato rapporto deficit/Pil del 3 per cento, vero e proprio ‘peccato originale’ del progetto di moneta unica europea, dal punto di vista economico è privo di senso.

«La Banca Centrale è come Dio» continua de Grauwe ridendo: la Banca Centrale «A differenza di tutte le altre banche, può creare denaro dal nulla. E non corre il pericolo di diventare insolvente o fare default: se tiene a bilancio i bond che acquista è solo per una convenzione contabile, ma potrebbe buttarli direttamente nel tritacarte. Certo, tale pratica implicherebbe il rischio di creare inflazione. Ma, in questo momento, d’inflazione ce ne sarebbe un bisogno urgente».

Sul rischio inflazione per effetto dell’emissione di moneta ci sarà modo di approfondire in futuro, ma il messaggio di Paul de Grauwe non lascia spazio a fraintendimenti: operando correttamente attraverso la Banca Centrale, il problema del debito pubblico non esiste.

BANCA CENTRALE E SOVRANITÀ MONETARIA: SPAGNA E GRAN BRETAGNA A CONFRONTO

Non è tutto: l’insigne economista, nella sua analisi pone anche l’accento su quanto l’aver sottratto il controllo della moneta ai governi nazionali sia stato un grave errore.

Tutto il contrario – questo va sottolineato – di quello che da più parti è stato per tanti anni ripetuto ai cittadini europei (agli italiani soprattutto). Uno dei cavalli di battaglia del partito unico dell’euro è sempre stato, infatti, l’argomento secondo cui «i politici sono ladri e incapaci, per cui se lasciamo in mano loro il controllo della moneta il sistema non può funzionare».

Ma, a quanto si può dedurre proseguendo il ragionamento del docente della London School of Economics (e osservando la realtà dei fatti), se si toglie il potere i politici per trasferirlo all’alta finanza, in effetti le cose non vanno molto meglio: «Si guardi per esempio alla Spagna, che nonostante avesse un debito sovrano inferiore a quello dell’Inghilterra, si è dovuta finanziare a tassi più alti a causa dei mercati, che percepivano un suo default come più probabile» spiega de Grauwe, che poi conclude: «Sorretta da una propria Banca Centrale, l’Inghilterra ha fatto meno austerity e, grazie anche alla svalutazione della sterlina, è tornata a crescere rendendo il suo debito più sostenibile».

Insomma ha fatto bene la Gran Bretagna a non entrare nell’euro: nonostante fosse messa peggio della Spagna in termini di debito pubblico, l’aver mantenuto la sterlina ha permesso al Regno Unito non solo di non crollare sotto il peso degli interessi del debito, ma addirittura di crescere.

«LA TRANSFERUNION È L’INCUBO DEI TEDESCHI»

Si arriva così al punto fondamentale: come spiega de Grauwe, manca una volontà politica.

Perché, infatti, a Maastricht non è stata prevista la creazione di un sistema di bilancio (almeno in parte) unificato per quella che di lì a pochi anni sarebbe diventata l’Eurozona? Perché nemmeno oggi, che la necessità del ‘transferunion’ è ormai palese, di un bilancio unificato quasi nemmeno se ne parla?

Per rispondere, basta ricordare come a ‘dettare legge’ nel 1992 a Maastricht sia stato l’allora ministro delle Finanze tedesco Theo Waigel. De Grauwe spiega: «La transferunion è l’incubo dei tedeschi, che giustamente pongono la questione dell’azzardo morale: temono che tali trasferimenti possano trasformarsi da congiunturali a strutturali, diventando una pratica permanente che li svantaggia».

A chiarire il senso di questa sorta di ‘paura’ tedesca nei confronti del provvedimento che salverebbe una situazione ormai drammatica – non solo per la Grecia ma per gran parte del continente europeo – risalta il commento finale del professor de Grauwe: è come se avessimo «Una casa che va a fuoco e dei pompieri che, giunti sul posto, decidono di non spegnere l’incendio per paura di istigare all’azzardo morale. Questo è l’atteggiamento della Bce, che con la Grecia fa il poliziotto invece di fare il pompiere».

 
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