Il grande saggio Zheng Xuan, esempio di intelletto guidato dalla morale e al servizio del bene

Il comportamento degli antichi cinesi non era condizionato da leggi e regolamenti: era determinato da un codice morale interiore, basato sui principi del Confucianesimo, del Taoismo e del Buddismo, che per secoli hanno permeato ogni aspetto della vita privata e pubblica, familiare e culturale del popolo cinese.

Per questo, le storie e i racconti sugli studiosi confuciani, o sui monaci taoisti e buddisti sono numerose: spesso descrivono le virtù dei personaggi che mettevano in pratica i principi che studiavano e insegnavano. Le loro vicende e prodezze hanno ispirato le persone a seguire una via di auto miglioramento interiore, nella sicurezza di poter raggiungere mete spirituali accessibili a tutti. Altre volte, i racconti sulla fine di chi ha agito in maniera moralmente riprovevole, fanno da monito alle generazioni successive basandosi sulla credenza radicata di una giustizia divina che prima o poi si manifesta anche nel mondo umano.

Lo studioso confuciano Zheng Xuan mette in luce le virtù di chi migliora sé stesso e contribuisce al bene comune, senza autocelebrarsi o mettersi in mostra. Nato nel 200 a.C. sotto la nascente dinastia Han Occidentale (206 a.C.- 95 d.C.), Zheng Xuan contribuì a commentare i classici del Confucianesimo e i testi storici ufficiali, costruendo la base di tutti gli studi successivi, mentre le due scuole di pensiero, che si combattevano durante la sua vita, declinarono fino a scomparire.

Ancora giovane, dopo aver frequentato la scuola di Tai Xue e i maestri della zona di Xiao Shan, e resosi conto di non poter imparare più nulla, Zheng Xuan partì verso Ovest, per studiare dal più noto studioso confuciano dell’epoca Ma Rong, il famoso insegnante noto per essere così pieno di sé e arrogante da permettere solo a 50 studenti, dei 400 che aveva, di vederlo di persona.

Zheng Xuan nei tre anni in cui aveva frequentato la scuola, non aveva mai visto il suo maestro, ma si era impegnato così duramente studiando con uno dei miglior discepoli di Ma Rong, da far parlare di sé; così durante una delle prove ufficiali Ma Rong decise di mettere alla prova le capacità del giovane, pensando di umiliarlo di fronte a tutti. Ma rimase così stupito e sconvolto dalle capacità del giovane che ne ebbe paura: le considerazioni sui classici di Zhang Xuan erano notevoli, superava il maestro per saggezza e profondità in molti temi. Ma Rong non apprezzò affatto il suo allievo, e disse ai sui studenti che Zheng, che stava per tornare al suo luogo natale dopo le prove, stava portando a est la sua dottrina con l’intenzione di sottrarla; cercò quindi di fermarlo facendolo inseguire dai sui servitori quando si era messo in viaggio.

Nascondendosi sotto un ponte Zheng Xuan riuscì a sfuggire alla cattura del suo invidioso insegnante, e col tempo la sua saggezza e fama attirarono una enorme quantità di studenti, mentre gli studenti di Ma Rong diminuirono sempre più.

Nonostante la sua intelligenza e notorietà, Xuan rimase sempre umile e disponibile e non cercò mai di ingraziarsi i potenti, mostrandosi sempre imparziale e fedele ai suoi princìpi, nonostante molti nobili di corte o generali cercassero il suo sostegno o tentassero di portarlo dalla loro parte politica.

Per esempio durante gli ultimi anni dell’imperatore Lingdi, un potente e autoritario signore di nome He Jing lo invitò a partecipare al governo centrale, ma Xuan rifiutò; dopo varie pressioni lo costrinse con un ordine imperiale a raggiungerlo nella capitale Luoyang.
Zheng Xuan, senza alcun timore, si presentò con abiti normali da studioso (invece che con la toga di gala ufficiale d’etichetta prevista per un’udienza ufficiale) per mostare la sua indipendenza intellettuale, e rimarcare così la sua volontà di rimanere coerente con le sue precedenti decisioni di restare fuori dagli intrighi di potere. Il giorno dopo se ne andò in tutta fretta, con la scusa di dover tornare a casa per prendersi cura del padre malato.

In un’altra occasione, Xuan fu inviato ad una cena ufficiale dal grande generale Yuan Shao della dinastia Han, che conosceva da alcuni anni. Tra gli invitati nessuno sapeva chi fosse il saggio confuciano, tanto che lo trattarono con sufficienza e sussiego; durante la cena rimase sereno e ben educato nonostante il trattamento subito, e le sue risposte lasciavano nell’ammirazione tutti gli astanti che cominciavano ad rispettare la sua erudizione e il brillante acume.
Solo a un arrogante invitato di nome Ying Shao, a sua volta accademico confuciano, dopo che quest’utimo gli aveva detto che avrebbe dovuto studiare da lui in quanto governatore Tai Shan, rispose caustico che anche i discepoli di Confucio Yan Hui e Zi Gong non avevano mai mostrato particolare rispetto per in funzionari in quanto tali.

Prima pagina dello Zuo Zhuan in una copia del periodo della dinastia Ming (circa sedicesimo secolo)

Ma forse l’episodio che mette più in luce il suo vero carattere morale fu il famoso incontro con Fu Zishen, un altro studioso che non aveva mai conosciuto prima. Per tutta la vita Zhang Xuan aveva lavorato a commentare lo Zuo Zhuan’ (conosciuto come la Cronaca di Zuo o Commentario di Zuo) un imponente libro di cronaca e storia cinese che copre il periodo che va dal 722 a.C. al  468 a.C., ma non era mai risuscito a finire l’opera di commento.
Quando incontrò lo studioso, per caso scoprirono di condividere la passione per lo Zuo Zhuan al quale entrambi si erano dedicati con impegno per scrivere i commenti nel corso di molti anni; si confrontarono a lungo e si scambiarono molte profonde riflessioni. Quando Zhuang Xuan si accorse che Fu Zishen aveva una visione molto simile alla sua, decise di dare tutte le sue note all’altro studioso permettendogli di finire l’opera e aiutandolo a migliorarne la qualità senza prendersi nessun merito. L’opera fu completata a nome di Fu Zhishen senza alcuna menzione come coautore del saggio confuciano Zheng.

Il gesto del saggio Zheng Xuan sarebbe incomprensibile per i nostri tempi, ma dalla prospettiva della cultura tradizionale cinese era retto, poiché si credeva che l’intelligenza fosse un dono divino da usare seguendo i principi morali e per servire gli altri piuttosto che per accrescere il proprio potere o prestigio. Questo perché gli dei guardano alla virtù di uomo, non alla sua fama.

 
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