Guerra culturale, Hollywood sotto il giogo cinese

Si immagini un partito politico che annunci un nuovo sistema di controllo su Hollywood che metta al bando qualunque rappresentazione negativa del partito stesso, della polizia o dell’esercito. E si aggiunga che questa messa al bando includa le rappresentazioni positive della religione (o di qualunque tipo di fenomeno soprannaturale) e di qualunque film che rappresenti delle persone che violano le sue leggi.

In effetti Hollywood lavora già secondo questi requisiti, ma non lo fa per conto di un partito politico statunitense: censura i propri film per compiacere il Partito Comunista Cinese, nella speranza che quest’ultimo ammetta i film di Hollywood sul mercato cinese. Questi film ‘addomesticati’ per ottenere i favori del regime cinese, sono spesso gli stessi proiettati nei teatri statunitensi.

Le autorità cinesi stanno attualmente comprando le imprese chiave dell’industria cinematografica americana; allo stesso tempo diversi cineasti americani stanno stringendo accordi direttamente con il mondo del cinema cinese, in stretta collaborazione con il Pcc, allo scopo di censurare e aggiustare i propri film.

Il Pcc sta quindi acquisendo il controllo su quello che Hollywood può e non può produrre. Questo interesse dei leader cinesi di influenzare Hollywood va molto al di là della semplice censura e dei profitti: è una vera e propria guerra culturale, le cui vittime sono gli spettatori americani e la libertà creativa di un’icona della cultura americana.
Hollywood è infatti la fabbrica dei sogni dell’America, e più di ogni altra forma culturale è in grado di plasmare l’immaginario collettivo americano. Non solo: Hollywood fornisce una base comune di dialogo su scala nazionale, al punto che la mentalità americana si è formata in buona parte attraverso il cinema popolare.
E ora il Pcc si sta inserendo direttamente nella fase produttiva delle storie attraverso cui gli Americani sono abituati a identificare sé stessi.

LA GESTIONE DELLA PERCEZIONE

Un documento del 28 ottobre 2015 della U.S. – China Economic and Security Review Commission, sostiene che «la Cina vede i film come un fattore di controllo sociale», e sottolinea che quando la Cina interviene sul contenuto dei film «gli interessi del Pcc vengono prima di tutto».

Una posizione che può essere riscontrata vedendo alcuni dei film che sono stati censurati o bloccati dai sistemi di controllo del Pcc. Ad esempio, nel film del 2013 Captain Phillips – Attacco in mare aperto, Tom Hanks interpreta il capitano di una nave mercantile americana salvata da un attacco di pirati somali dai Navy SEALs.

Il documento dichiara che il Pcc ha proibito la proiezione del film in Cina «a causa della rappresentazione positiva che il film dà degli Stati Uniti e delle forze armate americane».

Una sequenza del film del 2016 Mission: Impossible 3 con Tom Cruise, ha subito la rimozione di una scena in cui si vedevano dei panni stesi al sole ad asciugare a Shanghai, «perché non era positivo come ritratto di Shanghai, nonostante il fatto che il film fosse stato solo parzialmente girato a Shanghai, città in cui – tra l’altro – molte persone non possiedono asciugatrici». Non solo: Man in black 3 «ha subito il taglio di una scena in cui le memorie delle persone vengono cancellate, una scena che un quotidiano cinese sosteneva potesse essere percepita come un riferimento alle politiche di censura su internet della Cina».

La lista di casi simili è molto lunga, e potrebbe anche includere Karate Kid del 2010 che, nonostante sia stato realizzato sotto il forte controllo del Pcc, ha passato dei guai perché la parte del cattivo era impersonata da un cinese. Senza contare la versione in 3D di Top Gun (film del 1986 sempre con Tom Cruise) che è stata vietata sul mercato cinese perché «rappresentativa del dominio militare americano».

Secondo Amar Manzoor, autore di ‘L’arte della guerra industriale’, l’uso del cinema fatto dal Pcc può essere inteso in modo simile a come una società promuove il proprio marchio attaccando quello del proprio principale concorrente. Manzoor fa l’esempio del film del 2014 Transformers 4 – L’era dell’estinzione: il film contiene almeno 10 casi di product placement cinese, dalle società immobiliari, ai computer, al vino. Secondo Manzoor «dal punto di vista mediatico, queste aziende miravano a una presenza cinese all’interno del mercato cinematografico americano, così da ottenere maggiore penetrazione grazie ai film americani, rispetto a quella che potrebbero ottenere con i film cinesi».

Sempre secondo Manzoor, tutto questo si inquadra nell’idea più generale secondo cui infiltrandosi nella cultura di alto livello e posizionandosi in essa in maniera favorevole, si ottiene l’effetto di migliorare l’immagine del proprio brand.
Certo, ‘brand’ del Pcc è fatto di violazioni dei diritti umani, censura, prodotti scadenti, spionaggio e governo autoritario. Ma attraverso la censura cinematografica il Partito mira ad alterare, in chiave a sé favorevole, la percezione da parte del resto del mondo.

Perciò costringe Hollywood a non mostrare nessuna di queste sue caratteristiche negative, al contrario, impone una falsa immagine positiva della Cina. E proibisce anche che Hollywood rappresenti in maniera positiva gli Stati Uniti, che sono il principale concorrente del regime cinese.

Secondo Ronald J. Rychlak, docente di Diritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’università del Mississipi, i regimi autoritari si sono serviti dei film per ottenere vantaggi politici a partire dall’inizio del XX secolo: «L’industria dell’intrattenimento è estremamente influente: basta vedere a come i sovietici controllavano il cinema e il balletto. E anche i nazisti facevano la stessa cosa». Rychlak è esperto in materia: ha scritto il libro ‘Disinformazione’ a quattro mani con il tenente generale Ion Mihai Pacepa, l’ufficiale più alto in grado dell’intelligence sovietica che abbia mai disertato in Occidente, e ha reso note le particolari tattiche usate dai regimi comunisti per creare falsi racconti e per distorcere la realtà. «L’arte migliore è quella che ha l’effetto di indurci a mettere le cose in discussione, a pensarci su» osserva Rychlak, «quella che ci spinge a prendere in considerazione nuove possibilità. E questo è proprio quello che i comunisti non vogliono. Gli artisti possono parlare del potere dell’arte ma i totalitaristi non riusciranno mai a capirlo, perché ne abusano».

UN SISTEMA DI CONTROLLO

Hollywood si è aperta alla censura del Pcc, perché ci vede l’occasione d’oro per entrare nel mercato cinese.

Il Pcc manipola il desiderio di collaborazione che ha Hollywood, limitando il numero di film stranieri ammessi in Cina con un sistema che viola le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, Wto). Ogni anno solo 34 film occidentali possono essere proiettati in Cina, per cui le case cinematografiche occidentali lottano tra di loro per accaparrarsi il favore del Pcc.
E le condizioni di ingresso sono severe: Hollywood deve scegliere tra subire un taglio del 25 per cento delle vendite al botteghino o vendere i propri film al Pcc a un prezzo stabilito. I film vengono scelti dall’agenzia statale cinese responsabile della censura cinematografica nota come l’Ente per la stampa, le pubblicazioni, la radio i flim e la televisione (Esprft).

«L’autorità del Esprft è volutamente ampia, in particolare il suo mandato comprende disposizioni che tutelano gli interessi del Pcc», afferma il documento, sottolineando che il direttore dell’agenzia, «come tutti i funzionari del Esprft», è un membro del Pcc «con una lunga carriera da propagandista».

Ottenere l’idoneità per uno di questi 34 film scelti, così, è un po’ come giocare alla roulette russa, dal momento che il Pcc non è coerente su quali sono, per le pellicole, i contenuti permessi o respinti. Questo spinge i registi ad andare oltre le norme del Pcc conosciute a livello superficiale e a fare tentativi diretti a placare i censori cinesi.

Da alcune e-mail trapelate dalla Sony Pictures Entertainment si è scoperto cosa si cela dietro le modifiche che le case cinematografiche hanno dovuto apportare per adattarsi ai gusti del Pcc. Secondo un rapporto del luglio 2015 reso noto da Reuters, i dirigenti Sony hanno eliminato una scena dal film del 2015 Pixel in cui la Grande Muraglia veniva danneggiata da un hacker «fratello della Cospirazione comunista» perché temevano che le immagini avrebbero potuto giocare un ruolo negativo per l’ammissibilità del film nel mercato cinese. Invece, sono state lasciate le scene che mostrano la distruzione del Washington Monument, del Taj Mahal e di alcune porzioni di Manhattan.

Secondo Reuters, Li Chow, rappresentante della Sony Pictures in Cina, nel dicembre del 2013 in un’e-mail destinata agli alti dirigenti Sony scrive: «Anche se fare un buco nella Grande Muraglia potrebbe non essere un problema fintanto che fa parte di un fenomeno globale, in realtà è inutile perché di certo non agevolerà il rilascio del film in Cina. Vorrei, quindi, consigliare di non lasciare questa scena».

Tra gli altri film che hanno adottato misure analoghe anche il film Red Dawn del 2012, originariamente raccontava di un gruppo di comunisti cinesi che invadono gli Stati Uniti, ma la nazionalità dei protagonisti è stata cambiata scegliendo dei nord-coreani.

Oltre all’autocensura, Hollywood segue anche un altro percorso per raggiungere il mercato cinese: lavora direttamente con le aziende cinesi durante i film e si assicura la concessione dei funzionari del Pcc attraverso la supervisione più diretta dell’Esprft sin dalla fase produttiva: adottando questo stratagemma, i film non vengono più classificati come stranieri. Ma queste co-produzioni prevedono requisiti aggiuntivi: secondo il rapporto dell’Uscc, le co-produzioni possono includere «almeno una scena girata in Cina, la partecipazione di almeno un attore cinese, l’ottenimento di almeno un terzo dell’investimento totale del film da parte di aziende cinesi e, in generale, il mostrare ‘aspetti positivi della Cina’».

Nel 2013 a scegliere questo approccio è stata la produzione del film Iron Man 3, per il quale la Disney ha collaborato con la cinese DMG Entertainment Group. I realizzatori del film hanno accettato pesanti requisiti per soddisfare il Pcc, come ad esempio l’inserimento aggiuntivo di scene e sedi per la versione cinese, in cui compaiono attori e comparse cinesi. Inoltre hanno fatto sì che il cattivo fosse interpretato dall’attore britannico Ben Kingsley anche se il personaggio del fumetto sul quale si basa il film è cinese ed è soprannominato il Mandarino.

Se si è iniziato a notare che i film di Hollywood mostrano sempre più gli Stati Uniti sotto una luce negativa, e che si oppongono sempre più spesso alla religione ed elogiano il regime cinese, non si tratta di immaginazione: sono i requisiti che il Pcc ha posto a Hollywood e che la maggior parte delle case cinematografiche più importanti stanno seguendo per poter entrare nelle sale cinesi.

E con le multinazionali cinesi che sempre più creano partnership o acquistano nel settore cinematografico in tutto il mondo, queste forme di censura nel futuro potrebbero diventare anche più diffuse.

LA CORSA ALL’ACQUISTO CINESE

Mentre da una parte Hollywood cercava società cinesi con cui stringere partnership attraverso cui entrare facilmente in Cina, le società cinesi avevano già nel mirino il mercato cinematografico internazionale, con l’obiettivo di radicare l’influenza del Pcc su questa industria.

A gennaio, comprando la Legendary Entertainment per 3,5 miliardi di dollari in contanti, Dalian Wanda è diventato il primo gruppo cinese a possedere una grande casa cinematografica a Hollywood. Questa acquisizione seguiva quella del 2012 (per 2,6 miliardi di dollari) della AMC Entertainment Holdings, che gestisce gli AMC Theaters (la seconda più grande catena di sale cinematografiche degli Stati Uniti) e che possiede anche l’australiano Hoyts Group, il gruppo europeo Odeon & UCI, e la catena cinese Wanda Cinema Line. E ci sono notizie secondo cui starebbe cercando di comprare il 49 percento della Paramount Pictures.
Altre grandi gruppi cinesi interessati ad acquisire società occidentali sono Tencent, DMG Entertainment (DMG Yinji), Baidu e l’emittente Tv statale Cctv.

Molte di queste società hanno connessioni poco chiare col Partito Comunista Cinese ma, a prescindere da quanto siano controllate dal Pcc, la maggior parte delle società cinesi hanno l’obbligo di essere collegate al Pcc stesso.
L’agenzia di stampa statale cinese Xinhua ha infatti recentemente pubblicato un documento in cui si afferma questo requisito, e si osserva che «l’Atto costitutivo del Partito stabilisce che le organizzazioni con più di tre membri» debbano avere una rappresentanza del Pcc, incluse le società estere che abbiano sede in Cina.
A prescindere, poi, dal fatto che le società stesse abbiano o meno motivo di fare propaganda a favore del Pcc, avere una sede cinese significa essere soggetti alle leggi del Partito comunista, incluse quelle sulla censura.
E, d’altra parte, i massimi livelli della dirigenza del regime cinese hanno chiaramente dichiarato il loro interesse a usare film e altre forme di intrattenimento e informazione per realizzare i propri obiettivi strategici.

GUERRA DI CULTURA

Nel corso di un discorso davanti al plenum del Pcc nell’ottobre 2012, l’Asia Times riportava che l’ex capo del Partito Hu Jintao aveva parlato di una «dichiarazione di guerra alla cultura occidentale», sostenendo che la strategia di diversi Paesi è quella di «rafforzare il proprio potere di persuasione culturale». Hu aveva sostenuto che esistevano delle «forze internazionali ostili» che stavano tentando di «occidentalizzare» la Cina, mediante un’azione «di infiltrazione a lungo termine in campo culturale e ideologico». Hu lamentava inoltre un «inquinamento spirituale» e una «liberalizzazione borghese» quali cause dei movimenti a favore della democrazia, e faceva appello al Pcc affinché innalzasse «il livello di sorveglianza» e prendesse «contromisure efficaci». Un discorso che coincideva con l’acquisto da parte del Gruppo Dalian Wanda dei teatri AMC.

L’Huffington Post aveva poi commentato il discorso di Hu dicendo: «Una cosa su cui possiamo contare è un rinnovato sforzo di censura, il controllo del Grande Fratello e il controllo del pensiero. Potrebbe sembrare un’esagerazione, ma non lo è: il presidente Hu Jintao ha espresso questa intenzione in modo secco e deciso».

Se, da una parte, questo genere di strategia del Pcc può sembrare oscura e fumosa, dall’altra il Partito si è espresso in modo ben chiaro nella sua retorica anti-americana, come nelle sue intenzioni di contrastare questa «guerra di cultura».

David Major – fondatore e presidente del CI Centre, una società statunitense che fornisce servizi di formazione per il controspionaggio – in una testimonianza allo Uscc [U.S.- China Economic And Security Review Commission, un organismo creato dal Parlamento Usa nel 2000 per monitorare e analizzare i rischi per la sicurezza nazionale statunitense connessi ai rapporti commerciali con Cina, ndt] il 9 giugno 2016, ha spiegato la natura delle idee del Pcc che stanno alla base della guerra culturale: «Significa influenzare la faziosità culturale nei confronti di un determinato Paese imponendo la propria cultura».

Major ha poi sottolineato che questa strategia rientra nel più ampio tipo di guerra non convenzionale cinese noto col nome di ‘Guerra Illimitata’, delineato da due colonnelli dell’Aeronautica cinese nel 1999: la Guerra Illimitata è solo una delle dodici strategie che i due hanno esposto in quella che loro stessi hanno descritto come «guerra senza limiti» e «guerra senza moralità».

Una delle ultime strategie del Pcc su questa linea, nota come ‘Le Tre Guerre’, è diretta emanazione della Guerra Illimitata e si focalizza principalmente sulla gestione della percezione. Il Comitato centrale del Pcc e la Commissione militare centrale hanno approvato l’uso da parte dell’esercito di queste Tre Guerre nel 2003.

Le Tre Guerre consistono in: guerra psicologica, guerra mediatica e guerra legale. Nel marzo 2015 un’analisi del Comando delle operazioni speciali degli Stati Uniti spiegava l’uso di questi nuovi concetti di guerra, come altri utilizzati da Iran e Russia, e chiedeva che gli Stati Uniti iniziassero a contrastarli.
I due aspetti della strategia delle Tre Guerre che interessano direttamente la guerra di cultura, sono la guerra psicologica e la guerra mediatica. Il documento indica che la guerra psicologica «ha il fine di minare la capacità operativa del nemico demoralizzando sia i militari che i civili», servendosi di Tv, radio, voci incontrollate e altro.
La guerra mediatica invece «ha come obiettivo di influenzare l’opinione pubblica interna e internazionale, così da creare un sostegno pubblico alle azioni militari e dissuadere gli avversari dall’intraprendere azioni contrarie agli interessi della Cina».

Il terzo tipo di guerra in questione, la guerra legale, è ravvisabile nella manipolazione del Pcc delle leggi internazionali alla base delle restrizioni sulle importazioni dei film e delle violazioni alle norme del Wto. Numerosi commenti da parte di leader del Pcc e di ufficiali dell’esercito, dimostrano come il regime veda l’uso strategico dell’intrattenimento nell’ambito della guerra culturale.

Nel dicembre 2013 il quotidiano militare cinese Zhongguo Guofangbao, ha lanciato un’invettiva contro il videogioco Battelfield 4, accusandolo di ritrarre un generale cinese nella parte del cattivo, di costituire «una nuova forma di penetrazione culturale e di aggressione» mirata a «screditare l’immagine di una nazione agli occhi delle altre», aggiungendo che il fatto di rappresentare nel gioco il generale cinese come l’antagonista, causava nel pubblico occidentale la percezione della Cina come del «nemico comune».

Quando questo genere di dichiarazioni vengono considerate nel contesto della messa al bando da parte del Partito Comunista Cinese di film come ‘Captain Phillips’ e la versione 3D del vecchio Top Gun, a causa della luce positiva in cui mettono le forze armate Usa, la strategia diventa chiara.

Dopo che, nell’agosto 2014, il Pcc ha iniziato a restaurare i film degli anni ’30, il South China Morning Post ha parlato di «guerra culturale» e di «spinta del potere di persuasione», sottolineando che il Pcc ha dichiarato di voler investire nel 2014 100 milioni di yuan (circa 15 milioni di dollari) per finanziare 5-10 «film che siano capaci di esercitare influenza».

Zhang Hongsen, il capo dell’Esprft, citato sempre dal South China Morning Post, ha infine dichiarato: «Bisogna riconoscere che siamo in piena competizione con i film americani […] Qui si tratta di combattere e di difendere il proprio territorio culturale».

Articolo in inglese: China Wants to Control What You Watch

Traduzione di Valentina Schifano e Emiliano Serra

 
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