Facebook rischia di rimetterci… La faccia

È noto come, data la ‘libertà’ (effettiva o percepita) che caratterizza internet fin dalla sua nascita, sui social media si abbia un particolare tipo di informazione, prodotta dalla condivisone da parte degli utenti di notizie pubblicate su altri media.

E in questo Facebook la fa da padrone, per un motivo molto semplice: è la piattaforma social con più utenti attivi in assoluto. Oltre un miliardo di persone usano Facebook ogni giorno in tutto il mondo, trasformandolo di fatto nel maggiore mezzo di informazione di massa del Pianeta.

Il noto meccanismo della creatura di Mark Zuckerberg è vincente soprattutto per il fattore ‘coinvolgimento’ (o ‘engagement’, per gli addetti ai lavori): quando si postano notizie da altri siti, tutti gli amici possono vederle e commentarle (e ripubblicarle); a loro volta, queste notizie saranno viste anche dagli amici degli amici e così via. Questo genera l’effetto moltiplicatore della popolarità dei post Facebook che tutti ben conosciamo.

Quello che in Italia potrebbero non tutti sapere, invece, è che negli Stati Uniti Facebook due anni fa ha implementato (nella colonna in alto a destra della home) un riquadro riservato alle notizie più popolari: la sezione trending news.

Nello spirito della regola aurea della cosiddetta ‘user experience’, stabilita una ventina di anni fa da Sergei Brin e Larry Page alla creazione di Google, il sistema dovrebbe selezionare in modo del tutto automatico (o ‘organico’) i post più popolari – quelli più condivisi e commentati – e mostrarli appunto in ordine di popolarità.

Un meccanismo – in linea di principio – di democrazia (quasi) perfetta: si dà più visibilità alle notizie che la maggioranza delle persone dimostra di ritenere interessanti.

Ma – e qui si entra nel vivo della questione – non è tutto assolutamente automatico: Facebook ha anche un team di revisori (che pare siano qualificati come ‘curatori’) incaricati di intervenire su questa sezione.

Come intervengano, lo hanno detto alla Testata digitale americana Gizmodo diversi ex dipendenti del popolare social network: censurano quello che ‘non piace’ e spingono quello che ‘piace’. In particolare, secondo gli anonimi ex impiegati, a Facebook piacciono i temi di sinistra e non piacciono i temi di destra.

Le fonti, è doveroso ribadirlo, sono anonime e parlano sotto la responsabilità propria e della Testata che le cita. Facebook ha dapprima negato, poi parzialmente ammesso qualcosa. Infine, per bocca di Mark Zuckerberg in persona, è arrivato l’impegno a un’indagine che verifichi eventuali irregolarità.

Nel frattempo, anche il quotidiano britannico Guardian ha affrontato la questione, confermando in linea generale dubbi sollevati sui criteri di selezione delle notizie applicati dalla redazione di Facebook.
Dubbi legittimati anche dalla scarsa chiarezza di Facebook stesso, e che hanno spinto addirittura la commissione Commercio, Scienza e Trasporti del Senato degli Stati Uniti a inviare una lettera di richiesta di chiarimenti a Mark Zuckerberg, fondatore, amministratore delegato e presidente di Facebook.

Insomma la questione è importante. Chi fa informazione, ossia chi l’informazione la produce e/o la veicola, ha una responsabilità cruciale nei confronti dell’assetto democratico di una nazione. Non è una novità: Orson Welles ha affrontato il tema del potere dei giornali settant’anni fa, in uno dei massimi capolavori del cinema, Quarto Potere (film, fra l’altro, fortemente improntato alla figura del magnate statunitense William Randolph Hearst, uno degli uomini più ricchi e potenti del suo tempo).

Quello che è nuovo, semmai, è il voler applicare le norme deontologiche e professionali del giornalismo ai social media: voler elevare, cioé, alcuni social media da siti-passatempo in cui postare foto di gatti che dormono, ‘aforismi’ di ogni genere e piatti carichi di dolci, a mezzi di comunicazione e di informazione di massa in piena regola.

E questo è un problema che anche Facebook ora si trova a dover affrontare.

 

Quelle espresse in questo articolo sono le opinioni dell’autore e non riflettono necessariamente il punto di vista di Epoch Times.

 
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