Effetto domino Cina-Wall Street-Europa: i danni della bolla speculativa cinese

Lo scoppio della bolla speculativa cinese sommato al Grexit, potrebbe avere effetti devastanti sull’economia mondiale.

La comprensione delle cause fondamentali di simili sconvolgimenti economici, è tutt’altro che intuitiva. Epoch Times ha perciò intervistato la professoressa Chiara Oldani, docente di Politica economica al Dipartimento di Economia e Impresa dell’Università della Tuscia di Viterbo, per un’analisi sulle cause della creazione e dello scoppio della bolla cinese.

Professoressa Oldani, l’esplosione della bolla speculativa e, in generale, l’andamento altalenante del mercato finanziario cinese, suggeriscono la presenza di problemi strutturali. Quale è la sua impressione a caldo in riferimento agli avvenimenti degli ultimi giorni?

«Bisogna distinguere tre fenomeni diversi: la questione greca e l’impatto sull’euro e quindi, evidentemente, sulle borse europee; la questione cinese, ossia le borse asiatiche, e poi l’effetto finale sulla borsa americana, che risente di tutte queste pressioni in un modo non semplice da interpretare.

«Le borse cinesi, sia quella di Shanghai che quella di Hong Kong, sono molto deboli in termini strutturali. Sono infatti borse caratterizzate da grandissime aziende, dei giganti, rispetto all’economia asiatica. Quindi, nel momento in cui queste poche e grandissime aziende subiscono un’oscillazione del prezzo (delle azioni, ndr), l’effetto sull’indice è molto marcato, perché è un mercato poco liquido, cioè caratterizzato da grandi concentrazioni di imprese. Niente a che vedere con le borse europee e americana.

«La Cina ha problemi strutturali, su questo sono tutti abbastanza concordi. C’è una bolla nella borsa di Shanghai, per cui si parla di ‘rimbalzo’ perché (dopo l’aumento, ndr) probabilmente continuerà a scendere, considerato quanto è salita in precedenza.

«Questo riguarda soprattutto la borsa di Shanghai; quella di Hong Kong dovrebbe – il condizionale naturalmente è d’obbligo – risentire meno di questo problema.

«La borsa Usa risente a sua volta di quanto spiegato finora, perché l’interscambio con la Cina è sempre molto forte. Vi è quindi un effetto diretto.

«Diverso è il discorso per le borse europee che, nonostante abbiano già scontato nelle scorse settimane le difficoltà relative alla Grecia, non hanno ancora perso tutto quello che potrebbero perdere, soprattutto i titoli bancari: se la Grecia andasse male, i titoli che si troverebbero in maggiore difficoltà sarebbero i bancari, di tutta l’Europa visto che quello europeo è un sistema bancario unico (per cui se uno è in difficoltà, lo sono tutti).

«Per finire, considerato che siamo in un sistema bancario globale, la difficoltà del sistema bancario europeo porterebbe ulteriori problemi sul sistema bancario degli Stati Uniti.

«Le previsioni, insomma, non sono proprio delle più ottimistiche».

Quindi siamo di fronte a un effetto domino, secondo cui la crisi della borsa cinese ‘rimbalza’ due volte su Wall Street.

«Esatto»

Lo scenario descritto è originato da una debolezza strutturale dell’economia reale asiatica?

«In effetti l’economia reale asiatica (le produzioni dei beni agricoli, industriali e dei servizi) tiene abbastanza bene. Il problema è originato dall’eccessiva concentrazione del mercato finanziario cinese: nella borsa di Shanghai sono quotate troppo poche aziende e troppo grandi. Non c’è, come nelle borse europee e Usa, una distinzione tra imprese piccole, medie e grandi. Di conseguenza, quando il titolo di una di queste grandissime aziende oscilla in modo forte ovviamente la borsa ne risente moltissimo.

«Fra l’altro, un ulteriore problema è che la gran parte di queste enormi aziende sono controllate dal governo cinese»

Perché è un problema che queste grandi società siano controllate dal governo cinese?

«È un problema perché senz’altro il partito del popolo cinese non brilla per trasparenza. E, nella gestione aziendale, la trasparenza è evidentemente un requisito importante per il mercato. Quindi, dato questo deficit di trasparenza, di fronte alla minima oscillazione [del titolo azionario, ndr] si scappa più rapidamente rispetto a come si farebbe – a parità di oscillazione – in una borsa non asiatica».

Qual è, a suo avviso, il motivo principale dello scoppio (peraltro ampiamente previsto) della bolla speculativa asiatica?

«Il motivo dello scoppio della bolla speculativa è la cosiddetta esuberanza degli investitori.

«Sicuramente l’economia cinese è quella andata meglio in questi ultimi anni, quindi tanti investitori si sono orientati sul mercato cinese perché dava risultati migliori. Questo ha causato un entusiasmo nei confronti del mercato cinese che però non è stato sempre giustificato: in pratica gli investitori [di tutto il mondo, ndr] hanno comprato qualsiasi cosa fosse sul mercato di Shanghai a prescindere dalla qualità dell’azienda».

Per riassumere, in sostanza siamo di fronte al seguente problema: si compra un titolo in borsa il cui prezzo risponde a una logica del tutto slegata rispetto al valore reale dell’azienda che lo ha emesso. Quindi, se questa azienda non è sana – a prescindere dal motivo – non esiste possibilità di saperlo, perché la Cina non è un mercato trasparente. Dall’altra parte ci sono poi gli operatori di borsa i quali, mossi da quella che è di fatto semplice avidità, comprano tutti contemporaneamente e senza alcun autocontrollo. In questo modo il prezzo di mercato dell’azione sale enormemente rispetto al reale valore dell’azione…

«Esatto».

In pratica si innesca una sorta di bomba a orologeria, che a un certo punto scoppia per quale ragione? Forse perché l’azienda non naviga in buone acque?

«Semplicemente perché, per ipotesi, si scopre che il fatturato aziendale non raddoppia da un anno all’altro. Questo già è sufficiente a innescare la paura: non si bada, ad esempio, che il fatturato di un’azienda sia rimasto invariato nonostante la crisi: gli investitori, in preda all’euforia, si aspettavano che il fatturato (che poi è il valore dell’azienda) raddoppiasse ogni anno».

È quindi corretto dire che, quando scoppia una bolla speculativa, se si crolla tutti insieme è per effetto della perfetta mobilità dei capitali instaurata a partire dai primi anni 90?

«Sì, esatto. Tecnicamente si chiama ‘effetto contagio’. È proprio come l’influenza».

Un quadro molto complesso, dal quale si fatica a trovare una via d’uscita. Lei, da tecnico, cosa suggerirebbe?

«Una via d’uscita sarebbe il non farsi prendere dalla (purtroppo normale) cieca euforia. Ma è molto difficile, visto che l’investitore guarda solo al mero guadagno: per lui conta l’incremento di prezzo e non il valore.

«Un’altra via d’uscita potrebbe essere quella suggerita recentemente dalla Federal Reserve: ritirare parte della liquidità creatasi negli ultimi anni, in modo da riavvicinare i livelli azionari all’attività economica, per sgonfiare gradualmente questa bolla. Qualcosa di non facile, senza dubbio».

Quindi diminuire liquidità per dare un messaggio agli investitori: ‘smettete di investire dissennatamente e iniziate a comprare azioni in ragione dell’effettivo valore dell’azienda che le ha emesse’.

«Esatto».

Perché questo non avviene?

«Perché tutti cercano il profitto, guardano solo un lato della medaglia. Poi ci sono le banche centrali di tutto il mondo: tutte, nessuna esclusa, hanno iniettato enormi quantità di liquidità nei sistemi finanziari nazionali, per cui gli investitori si ritrovano con moltissima liquidità da investire.

Un’osservazione: nel mondo reale, se un imprenditore dimostra di essere in gamba e ha un’azienda che va bene è ovviamente sensato che ottenga prestiti da investire nell’attività produttiva. Se invece – sempre nel mondo reale – un investitore presta il proprio denaro a destra e a sinistra senza preoccuparsi della validità dell’azienda a cui dà i propri soldi, è naturale che costui perda più di quanto guadagni. Perché la stessa cosa non avviene per gli investimenti in borsa?

«Ci sono naturalmente operazioni che si chiudono in profitto e altre che chiudono in perdita. Negli ultimi anni, considerando in aggregato il risultato complessivo del portafoglio, il bilancio tra profitti e perdite è stato positivo per gli investitori».

Considerato che tutto ciò di cui abbiamo parlato è strettamente connesso con la perfetta mobilità dei capitali a livello globale, sarebbe secondo lei giusto e possibile ritornare a un controllo, razionale ed equilibrato, dei movimenti di capitale nel mondo?

«Sarebbe giusto, forse sì. Ma non sarebbe possibile. Consideriamo che al mondo esistono 154 Paesi. Il blocco dei capitali funziona solo se tutti lo applicano contemporaneamente: basta che un Paese – anche piccolo, come può essere San Marino – non lo applichi per far saltare l’intero sistema».

Per capire meglio questa dinamica, facciamo un esempio: ipotizziamo che gli Stati Uniti istituiscano un blocco dei capitali e proibiscano quindi agli operatori di Wall Street di investire nella borsa cinese. Gli investitori americani non potranno più comprare titoli rischiosi. Il problema sembrerebbe risolto. Perché, invece, a rendere inutile il blocco dei capitali Usa basterebbe che uno Stato anche piccolo – come San Marino – mantenesse il proprio regime di perfetta mobilità di capitali?

«Bisogna considerare che si possono bloccare i capitali, ma non le imprese: un imprenditore può andare dove vuole. Quindi, l’imprenditore si sposterà nel Paese che non aderisce al blocco dei capitali, creando addirittura un incentivo a simili comportamenti. La cura diventerebbe insomma peggiore della malattia».

Si innescherebbe poi il circolo vizioso delle nuove ulteriori leggi in proibizione dello spostamento delle aziende, con tutte le sue ovvie implicazioni…

«Esattamente. Il controllo totale non è una soluzione»

In conclusione, non ci resterebbe che ‘pregare’ che emergesse una nuova coscienza nei soggetti che, attraverso le operazioni di borsa, di fatto guidano i mercati finanziari planetari. Non dimentichiamo, infatti, che le attività dei grandi investitori e re della finanza mondiale, hanno enormi ripercussioni sulla vita di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo: miliardi bruciati, posti di lavoro persi, famiglie sul lastrico. Non esiste, in questo senso, nessun genere di responsabilità?

«Questo rientra purtroppo in quel complessissimo tema che è l’etica nell’economia. Che però non fa salvo nessuno. Per esempio: qual è la responsabilità di un governo? Consideriamo la Grecia: adesso se la prendono tutti con Tsipras, ma dove sono, ora, i 20 governi che lo hanno preceduto e che hanno combinato quello che hanno combinato?

«È un problema molto più pervasivo rispetto alla struttura stessa del capitalismo: il profitto e la remunerazione di pochi che corrisponde a notevoli costi per la collettività di un sistema molto iniquo. Questo è evidente: il sistema è molto iniquo».

Assolutamente. Ma non si può ignorare il fatto che lo sconvolgimento finanziario attuale stia iniziando da un Paese che è, e si qualifica, come comunista, non capitalista.

«Sì perché loro non hanno né regole né controlli: appunto in quanto comunisti non hanno messo in piedi un valido sistema normativo di ‘corporate governance’ e di vigilanza. Per cui adesso non sanno come mettere la toppa. O meglio: lo sanno, ma mancano di trasparenza, per cui il mercato ora è timoroso».

Chiarissimo. In chiusura, qual è la sua previsione per il futuro dei mercati finanziari?

«Come ogni anno, in luglio e agosto le borse non guadagnano, per vari motivi. A parte questo, e il rimbalzo della borsa di Shanghai, non credo ci saranno effetti molto grandi. A meno che la questione greca non vada a finire proprio male. Se si troverà un accordo per la Grecia il rimbalzo sarà abbastanza contenuto. Altrimenti la questione sarà molto complessa: con la Grecia ci sono Paesi molto più esposti di altri».

 
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