Come il cibo importato diventa ‘made in Italy’, tra intrighi mafiosi e campi di lavoro

La sera del 24 luglio 2002 il tunisino Ismail Jaouadi tirava il suo ultimo respiro. Nel suo corpo sei colpi di pistola. Dinanzi a lui il collega facchino Biagio Grassia con l’arma fumante in mano. Dal buio di quella sera in campagna, si sarebbe fatta parzialmente luce su un’oscura storia che lega truffe alimentari, mafia e campi di lavoro cinesi.

L’aneddoto viene dal libro Cibo criminale, scritto dai giornalisti Luca Ponzi (Rai) e Mara Monti (Sole 24 Ore). Ismail lavorava nel modenese per conto della Dimac, una cooperativa di facchini che lo aveva assunto per lavorare nei prosciuttifici. Ma aveva visto qualcosa di troppo.

Ismail «ricattava [la cooperativa] sullo sbollo dei prosciutti», spiega Luca Ponzi, intervistato al telefono. I prosciutti hanno un marchio che ne indica la provenienza. Ma i macellai sostituivano questo marchio con un altro, indicando una provenienza differente, e il tunisino aveva fotografato l’operazione.

Questo caso ha dato lo spunto ai due giornalisti per indagare oltre. «Ci siamo chiesti se questo che avveniva nel mondo della carne di maiale fosse in qualche modo replicato negli altri prodotti d’eccellenza del ‘made in Italy’», e da lì è nata l’idea del libro.

Il ‘made in Italy’ fasullo è ovunque. Arriva sulle nostre tavole, ma soprattutto viene esportato. All’estero, quello che viene spacciato per un prodotto italiano autentico può essere una merce di scarsa qualità, cosa che ha un «impatto assolutamente negativo» sull’Italia.

Ci sono vari tipi di ‘made in Italy’ fasullo. Quello più diffuso all’estero – e perfettamente legale – è legato all’italian sounding. Se un prodotto ha parole come Vesuvio o Chianti, che richiamano l’Italia, viene percepito come una merce italiana di alta qualità, ma con l’Italia potrebbe non aver nulla a che fare.

Chi vive all’estero forse conoscerà il Parmesan, un formaggio che dovrebbe richiamare il Parmigiano Reggiano, ma che in realtà non ha nulla a che fare con il rinomato formaggio italiano. È un esempio di italian sounding, un trucco che frutta 164 milioni di euro al giorno – secondo Ponzi – che non finiscono di certo agli Italiani.

Anzi si crea un «danno ai produttori onesti» che producono realmente il cibo di alta qualità. Si ha un «danno d’immagine» perché all’estero, con il tempo, i prodotti italiani in vendita potrebbero non godere più di tanta considerazione e un «danno all’Italia» perché al Belpaese da tutto ciò «non arriva un centesimo».

Ma ci sono altri tipi di ‘made in Italy’ fasullo, al limite della legalità. Diciamo illegali in primo grado, dato che la loro legalità va a braccetto con il processo ad Antonino Russo, fondatore della AR Industrie Alimentari, «il più importante produttore italiano di conserve di pomodoro», si legge nel libro.

L’azienda avrebbe importato triplo concentrato di pomodoro dalla Cina, aggiungendo poi dell’acqua e del sale. Grazie a questa procedura il concentrato di pomodoro diventava ‘made in Italy’ perché un prodotto lavorato in più di una nazione reca sull’etichetta il nome della nazione dove «ha subito una trasformazione sostanziale», spiega Ponzi. Ma sostanziale non era.

Russo è stato condannato in primo grado per reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci e ha subito una sanzione di seimila euro per due milioni di barattoli di pomodoro cinese spacciato per italiano, si legge nel libro. Una sanzione che sembra bassa a Ponzi.

MAFIA E PARTITO COMUNISTA CINESE: UNA BELLA COPPIA

Ma il problema non riguarda solo una mancanza di etica da parte di produttori italiani ed esteri. Un’inchiesta condotta sul mercato ortofrutticolo di Fondi, provincia di Latina, «ha documentato che tutti i trasporti di ortofrutta da Roma in giù» erano affidati ad una società di proprietà del clan dei Casalesi, che «tramite un accordo con i calabresi e i siciliani aveva ottenuto il monopolio di tutti i mercati ortofrutticoli del Sud Italia».

Il clan sarebbe anche attivo nel settore della mozzarella di bufala, talvolta prodotta usando illegalmente cagliate estere. E nel settore non è attiva solo la mafia italiana, ma anche quella cinese, russa e giapponese, la famigerata yakuza. Il tutto per trasformare magicamente i prodotti in ‘made in Italy’.

E non finisce qui. Parte dei prodotti cinesi che diventano finto ‘made in Italy’ provengono dai campi di lavoro in Cina. Lo spiega Toni Brandi, presidente della Laogai Research Foundation Italia, che si occupa di studiare i laogai, i campi di lavoro cinesi.

«Il 21-22 per cento dei laogai producono nel campo agroalimentare» e non solo pomodori, afferma Brandi, intervistato al telefono.

Ci sono «almeno due» laogai nello Xinjiang in Cina «che producono pomodori che finiscono sulle nostre tavole e c’è un grande imprenditore italiano» che lavora con questi laogai.

«Abbiamo denunciato questo alla commissione Contraffazioni [della Camera] … però non credo che sia stato fatto molto», racconta il presidente della Laogai Italia, che preferisce non rivelare pubblicamente il nome dell’imprenditore.

Dalla Cina «ci mandano un sacco di schifezze che sono dannose alla salute e sono fatte da poveracci, monaci tibetani, [praticanti del] Falun Gong, Cristiani, Cattolici, dissidenti, che lavorano 16-18 ore al giorno in questi campi».

E mentre Ponzi invoca iniziative politiche forti per la chiarezza sulle etichette, la tracciabilità della materia prima e un albo pubblico per chi fa sofisticazioni alimentari, Brandi non è molto fiducioso.

Fino ad ora «ha fatto qualcosa il Governo? No, fanno gli accordi con la Cina per far piacere ai grandi imprenditori e alle multinazionali».

«È più facile che io diventi cinese che loro facciano delle indagini», scherza Brandi. Ma il suo tono di voce è polemico, come quello di chi si batte da anni contro delle ingiustizie, che di rado ricevono l’attenzione che meritano.

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