Cina al bivio, crisi o stagnazione

La crescita del 6,8 per cento del Pil cinese nel terzo trimestre è sospetta, in quanto perfettamente in linea con l’obiettivo del governo e le stime della maggior parte degli analisti. Ma anche supponendo che il dato sulla crescita non sia un problema, la saturazione del debito e la diminuzione degli utili propri del modello di pianificazione centrale lo sono.

Il debito complessivo cinese ha superato il 300 per cento nel 2017 e la liquidità continua ad aumentare, con un tasso di crescita quasi a due cifre (il 9,2 per cento) rispetto all’agosto dello scorso anno. Nei primi nove mesi del 2017, la Cina ha accumulato più debito di Stati Uniti, Giappone e l’intera Unione Europea tutti messi insieme.

Il debito del governo centrale e di quello locale rimangono stabili a circa il 60 per cento del Pil, mentre è la crescita del debito privato, a sollevare grandi preoccupazioni. Gran parte delle maggiori aziende quotate (il 60 per cento dell’indice Hang Seng di Hong Kong, dove si scambiano le azioni di diverse compagnie cinesi) hanno pubblicato dati che mostrano ritorni di molto inferiori al loro costo del capitale. Secondo il Financial Times, le aziende zombie (aziende improduttive tenute in piedi unicamente col denaro pubblico) solo  sono aumentate vertiginosamente, poiché la crescita non riesce a compensare l’aumento di debito e interessi.

In più i risultati degli investimenti del capitale straniero a prezzi molto alti hanno generato una reazione negativa per le multinazionali cinesi, in una situazione che ricorda l’ondata di acquisti sfrenati da parte dei conglomerati europei nei primi anni 2000. La legione di aziende zombie del governo centrale (ovvero le aziende incapaci di coprire gli interessi passivi con gli utili operativi) include 2.041 grandi compagnie con degli asset dal valore di 450 miliardi di dollari.

Il debito in sé non è un problema, se è usato per investimenti produttivi. Ma dando uno sguardo all’indice Hang Seng, si nota un pessimo valore del ritorno sugli investimenti: 1,33. E anche guardando a quella che, ottimisticamente, è stata chiamata ‘new economy’, le aziende cinesi presentano un’analoga combinazione di fondamentali deboli e cattiva allocazione del capitale.
La new economy, spinta da settori altamente produttivi, dipende pesantemente da un forte mercato dei capitali, per poter finanziare le crescita mediante bond e titoli. Un tasso dell’1,67 per cento di prestiti in sofferenza – sorprendentemente basso – è in effetti anche troppo basso; infatti Fitch, per esempio, stima che il dato vero sia 10 volte più grande di quello ufficiale.
Un mercato azionario più debole, e l’effetto di contagio dovuto all’aumento dei prestiti in sofferenza, colpiscono i deboli e obsoleti dinosauri della old economy così come i settori in pieno fermento della new. Lo si è visto a Taiwan, in Giappone e nell’Unione europea.

NESSUNA RIDUZIONE DELLA LEVA FINANZIARIA

Cosa accadrebbe a questi utili estremamente bassi se la crescita del Pil venisse ridotta a un valore più sostenibile, come il 4 per cento? L’economia collasserebbe completamente. Questa è una delle ragioni per cui – nonostante le dichiarazioni pubbliche che suggeriscono l’opposto – il governo cinese non può fare della riduzione del debito una priorità, e non lo farà.
«La Cina ha bisogno di 6,5 unità di capitale per creare ogni singola unità di crescita del Pil: è il doppio della quantità che era necessaria dieci anni fa», ha scritto infatti il Financial Times, citando una relazione della banca d’investimento Ubs.

Dopo anni di debito dei mutui in aumento, persino le famiglie cinesi che normalmente sono in regola con il fisco, hanno fin troppo debito da pagare. Il rapporto tra debito familiare e Pil è quadruplicato negli ultimi 10 anni.
Insomma: la Cina, un tempo sostenuta da forti risparmi familiari, ora annega nel debito. Entro il 2020, le famiglie avranno lo stesso rapporto tra pagamenti del mutuo e reddito disponibile del livello di picco negli Stati Uniti prima della crisi finanziaria.

Questi fattori rendono impossibile la velleità cinese della riduzione della leva finanziaria. Tutt’al più si osserverà un’enorme aumento del debito pubblico, nel momento in cui il settore privato avrà raggiunto il limite fisiologico di aumento del debito. E se il debito pubblico ora sembra basso, qualora a esso si aggiungessero le passività delle banche statali, il rapporto tra debito ufficiale e Pil potrebbe facilmente raddoppiare.

In questo quadro, la Cina ha alcune possibili strade da seguire, tutte spiacevoli.
La gran parte del debito è in valuta locale nei confronti delle banche locali, quindi il governo potrebbe far salire l’inflazione drasticamente per annientare il debito in termini reali. Ma fare questo colpirebbe negativamente la crescita economica e porterebbe l’inflazione a livelli socialmente inaccettabili.

La Cina può resistere alla fine del suo circolo vizioso fatto di cattiva allocazione del capitale, alto debito e sempre maggiori squilibri nel contesto della stagnazione, evitando quindi un collasso sociale per mezzo di un forte aumento del debito pubblico. Ma è tutto quello che può fare.

Una grande crisi finanziaria resetterebbe il sistema da zero e creerebbe un ambiente adeguato a una crescita sostenibile, ponendo però al contempo notevoli sfide sociali. Per evitare questo, la Cina dovrà accettare la strada della stagnazione ‘zombie’ ad alto debito in cui Europa, Brasile e Giappone sono cadute per via del debito. Non esiste una bacchetta magica che risolverà questi squilibri preservando cifre da record della crescita del Pil.

 

Daniel Lacalle è capo economista presso il fondo speculativo Tressis e autore di Escape From the Central Bank Trap (pubblicato da Bep)

 

Articolo in inglese: China’s Two Choices: Crisis or Stagnation

Traduzione di Vincenzo Cassano

 
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