Colazione dolce e piattoni di pasta, un male tutto italiano

Tra informazione e a volte disinformazione, quando si parla di diete e dimagrimento si è ormai sommersi da tante nozioni che diventa difficile scegliere un modello alimentare adeguato per le proprie esigenze. Come si sa, le mode vanno e vengono, ma nell’alimentazione corretta dell’uomo esistono delle regole universalmente valide per ottenere una buona salute.

Negli ultimi anni, si sta parlando sempre più di diete a basso tenore di carboidrati; per alcuni sono una manna del cielo, per altri pericolosi approcci alimentari da evitare. Per approfondire questa questione e fornire una panoramica generale sull’alimentazione umana, Epoch Times ha intervistato Marco Lo Russo, naturopata con oltre quarant’anni di esperienza, docente della Scuola Italiana di Naturopatia con sede a Rimini dell’Istituto di Medicina Naturale di Urbino.

In che cosa consistono queste diete a basso tenore di carboidrati? Esiste insomma una definizione? 

«È importante essere precisi sulla parola carboidrato. I carboidrati complessi si dividono in amidacei e fibrosi. Quando si parla di queste diete, s’intende comunemente un basso tenore di carboidrati amidacei, dal momento che frutta e verdura sono carboidrati fortemente rappresentati in questa alimentazione. Non è quindi esatto dire ‘diete povere di carboidrati’; un’alimentazione sempre ben composta, prevede una forte presenza di carboidrati. Se invece si parla di carboidrati amidacei essi sono messi all’indice, in quanto hanno un alto indice glicemico. Determinano quindi un grosso rialzo della glicemia e di conseguenza un grosso rialzo di insulina per correggere l’aumento glicemico. È stato osservato che questo meccanismo, per quanto fisiologico, diventa nocivo se risulta essere sempre attivo, tanto da essere determinante nell’insorgenza di tutta una serie di patologie, anzi apre la porta a tutte le patologie cronico-degenerative se protratto nel tempo.

«Dato che le diete ordinarie sono tutte iperglicidiche, specie quella mediterranea (in Italia si consuma molta pasta, pane, pizza, biscotti, fette biscottate, gallette, eccetera), sono composte da alimenti con un alto indice glicemico che porta di conseguenza ad avere costantemente dei picchi insulinici durante la giornata; nel tempo, questo determina tutta una serie di problematiche. Quindi non è corretto dire ‘dieta a bassi carboidrati’, perché quando una persona mangia alimenti a basso indice glicemico, assume lo stesso molti carboidrati ma sono fibrosi, cioè ricchi di fibre. Queste sostanze, contenute soprattutto nelle verdure, impediscono il rialzo glicemico e di conseguenza dell’insulina. Inoltre le verdure costituiscono un’ottima scelta per una serie di altre problematiche e fanno bene alla salute.

«Bisogna ricordarsi che quelli che vengono intesi come carboidrati amidacei, sono recentissimi nell’alimentazione umana: hanno circa 7-10 mila anni. Prima non esistevano; quando l’uomo primitivo diventò agricoltore, fece delle scelte obbligate. Da raccoglitore, l’uomo primitivo diventò agricoltore e comparvero nella sua alimentazione latticini, legumi e carboidrati amidacei, che vengono appunto coltivati. Le cose non raccolte non esistevano come piante alimentari, era disponibile qualche seme, ma l’uomo era fondamentalmente un raccoglitore e cacciatore occasionale. Per mangiare i carboidrati come li conosciamo noi oggi, c’è stato bisogno di una rivoluzione alimentare grandissima. L’uomo primitivo ha cominciato a disboscare foreste per ottenere terreni, erano utili per la produzione di grandi quantità di cibo che sarebbe stato poi stoccato per l’inverno. In quel periodo l’alimentazione costituiva un notevole problema; si poteva morire di fame e quindi se l’uomo primitivo disponeva di qualche cibo stoccato, che poi poteva lavorare e mangiare, poteva risolvere una serie di problemi e mantenersi in vita. Lo sviluppo demografico si è avuto proprio grazie alla messa a punto delle tecniche agricole»

Quali sono le fonti di carboidrati amidacei?  

«Tutti i grani, come per esempio i risi, e i semi. Esistono i grani glutinosi come il grano, l’orzo, la segale e l’avena, e quelli non glutinosi che sono leggermente meglio in fatto di salute, come per esempio il riso, il miglio e il mais. Attualmente vengono commercializzati alcuni alimenti interessanti, come la quinoa e l’amaranto, che sono dei semi e quindi presentano un indice glicemico più basso dei grani precedenti.

«I carboidrati amidacei presentano diverse problematiche. La prima, è l’indice glicemico, che tende a far alzare la glicemia. Come ho spiegato prima, i carboidrati amidacei si dividono in glutinosi e non glutinosi. Quelli glutinosi presentano un grosso problema aggiuntivo e non importa essere celiaci per avere problemi con il glutine. Buona parte della popolazione mondiale è infatti intollerante al glutine, che causa problematiche non direttamente connesse ai problemi digestivi. In realtà il glutine è una proteina citotossica, il ché significa che determina reazioni anomale a livello della mucosa intestinale; in parole povere è irritante e causa una maggiore sensibilizzazione e permeabilità della mucosa intestinale, che nel tempo può provocare maggiore sensibilità verso altri alimenti precedentemente ben tollerati. Questo succede perché l’uomo nella storia non ha mai mangiato questi ‘nuovi’ alimenti; latticini, legumi e carboidrati amidacei, sono di recente introduzione nell’alimentazione umana, contrariamente a quel che si pensa comunemente. In realtà venivano prodotte le birre alimentari a bassissimo tasso alcolico, quindi i grani venivano messi nell’acqua e lasciati fermentare. Il processo della fermentazione è stato una delle maggiori scoperte nella storia dell’alimentazione umana poiché ha permesso di consumare cibi difficili da digerire, come i carboidrati amidacei e i latticini e anche i legumi (tempeh, natto, miso, eccetera). Ovviamente non stiamo parlando di birre moderne come quelle alcoliche ma di birre alimentari, dove la maggior parte del residuo solido rimaneva presente. Attraverso questo processo il cibo diventa fortemente biodisponibile, perdendo tutta una serie di ingredienti di solito dannosi.

«Stesso discorso per i latticini: l’uomo antico li faceva fermentare, basti pensare allo yogurt e al kefir. Anche i latticini si è scoperto che sono alimenti problematici: danno spesso allergie e intolleranze che possono manifestarsi come disturbi non soltanto digestivi, ma anche dermatologici, respiratori, eccetera. L’uomo ha sempre consumato solo il latte materno e solo quando è diventato agricoltore e allevatore ha cominciato a consumare latte proveniente da specie diverse. Il problema dell’uomo primitivo era il trasporto e la conservazione del cibo; quando si muoveva non era facile portarsi del cibo e raccoglieva fino a quanto poteva. Il punto è che ovviamente la natura ha i suoi tempi di rigenerazione e quindi quando un cibo veniva raccolto, occorreva aspettare del tempo per una successiva crescita sullo stesso terreno. Con l’aumento della popolazione mondiale, l’uomo divenne più stanziale per necessità e quindi si ebbe la rivoluzione agricola, che ha consentito l’ulteriore crescita della popolazione mondiale. L’allevamento di certi animali ha permesso di ricavare il latte e la carne, e di conseguenza di preparare alimenti facilmente conservabili e trasportabili. Ma questo ha avuto un prezzo in termini di effetti sulla salute».

Ha detto prima che le diete a basso tenore di carboidrati possono avere successo, grazie alla bassa risposta insulinica. 

«Il dimagrimento è un aspetto puramente marginale. Il problema è un altro: quando aumentano certe misure corporee, soprattutto nella zona addominale grazie all’alimentazione iperglicidica, aumenta di  conseguenza anche il grasso viscerale, e questi due fatti sono segno di malattia metabolica – oltre che per il primo di inestetismo che spesso spinge a mettersi a dieta. Inoltre, si è scoperto che il grasso non è un semplice tessuto di stoccaggio del grasso, non è inerte, ma è metabolicamente attivo e secerne ormoni. La situazione più classica ad esempio è quando si vede la forma a mela in una persona, ossia il ventre allargato. In quei casi, se il soggetto ha una circonferenza addominale superiore o uguale a quella dei fianchi, si può dire che soffra già di sindrome metabolica e resistenza insulinico periferica. Anche se il soggetto non presenta sintomi oggettivi, questo è già indizio di patologia; è la porta per tutte le malattie cronicodegenerative.

«Il meccanismo che lo determina e lo sostiene è quello che si è detto prima: un’eccessiva risposta insulinica causata da un’alimentazione ricca di carboidrati amidacei. L’insulina è l’ormone più antico (anche i vermi la producono) e influenza tutto il quadro ormonale dell’organismo causando, in questi casi, situazioni patologie».

L’eccessiva produzione cronica di insulina causa l’aumento di peso? 

«Se rispondessi di sì non sarebbe esatto. Questo perché se una persona aumenta principalmente la massa muscolare, non è un problema. La complicazione insorge quando buona parte di questo aumento è composto da tessuto lipidico. Poi dipende da quale tessuto lipidico; finché è grasso somatico, periferico, non è un grosso problema, dal momento che costituisce il carburante per l’uomo. L’uomo infatti fondamentalmente consuma grassi, non zuccheri. Se però il grasso è localizzato in certe zone ed è di una certa qualità – il grasso viscerale – allora non è un grasso buono ma un grasso patogeno.

«L’uomo utilizza i grassi durante la camminata, nello sport o nelle attività quotidiane, ma se questi grassi si originano dalla conversione degli zuccheri è un’altra storia: è difficile da eliminare ed è patogeno. Inoltre il tessuto adiposo è anche il luogo di stoccaggio dei metalli pesanti, serve anche come filtro disintossicante per il circolo sanguigno, per evitare che tali sostanze raggiungano gli organi vitali e vi facciano danni. Per fare un esempio, se un qualsiasi metallo tossico potesse accedere direttamente ai tessuti organici, creerebbe subito un danno; ma l’organismo indirizza questi metalli, che sono lipofilici [si sciolgono nel grasso, ndr], nel tessuto adiposo. Pertanto quando si fanno le diete, bisogna stare attenti, poiché i metalli vengono rimossi dal tessuto adiposo – è un’operazione che va fatta con cautela.

«Ritornando a prima, la semplice osservazione di una persona, fornisce già un indizio rispetto a quali condizioni metaboliche si trova. Quando un soggetto ha un rapporto giro vita e giro fianchi che si avvicina a 1 o lo supera, si può considerare già malato e già certamente sta andando incontro a malattie cronico-degenerative; è già in quella condizione. Non è detto che la patologia si manifesti dopo breve tempo, ma certamente il soggetto va in quella direzione. Per precisare quanto detto prima, il corretto rapporto gira vita/giro fianchi per la donna è 0,7, per l’uomo 0,8.

«In più, ricerche recenti dimostrano che nelle diete definite chetogeniche, cioè diete ricche di grassi e povere di zuccheri, i corpi chetonici (composti derivati dalla digestione dei grassi) sono perfettamente utilizzabili per tutte le cellule umane, anche quelle cerebrali. Tutte le cellule umane possono alimentarsi con corpi chetonici, oltre che a zuccheri. Le cellule tumorali non possono mangiare grassi, ma soltanto zuccheri. È evidente che un approccio alimentare tendente a una dieta chetogenica sia preventivo nell’insorgenza tumorale, ma può anche diventare elemento basilare di cura in caso di presenza di malattie tumorali».

In altre parole, con la dieta chetogenica si affama la cellula tumorale.  

«Sì, dal momento che non si nutre di grassi e di corpi chetonici, ma solo di zuccheri. Per fare un esempio, al giorno d’oggi per controllare la diffusione metastasica si effettua la Pet, in cui viene iniettato nel soggetto dello zucchero marcato; qualora si riscontrassero zone ad alto metabolismo zuccherino, siamo sicuri che lì c’è una diffusione tumorale. Questo perché, come detto prima, le cellule tumorali si nutrono solo di sostanze zuccherine. Si può dire che l’alimentazione zuccherina sia decisamente controindicata per la vita umana. Basta fare un’osservazione di tipo anatomico: il motore umano sono i muscoli e il carburante specifico umano sono i grassi. Una persona magra possiede circa il 13-15 per cento di grasso rispetto al peso corporeo, anche un atleta con gli addominali in evidenza ha l’8 per cento di massa grassa, mentre una persona normale ne possiede il 15-25 per cento. Per quanto una persona mangi cibi zuccherini, quello che si trasforma in glicogeno e che poi si deposita nei muscoli e nel fegato è al massimo 400-500 grammi. Di grasso nel corpo ce ne sono svariati chili normalmente: è quindi evidente che il carburante umano sono i grassi e non gli zuccheri. Comunque gli zuccheri a qualcosa servono: nelle attività anaerobiche, come per esempio una corsa veloce. Chi sostiene che la macchina umana vada a zucchero, ha capito male il funzionamento dell’organismo. Facciamo un esempio: se in una macchina ho un serbatoio di 30 litri e anche un serbatoio di 500 millilitri, non si può sostenere che questa vada principalmente con il contenuto del secondo serbatoio! In realtà si può andare a zucchero, ma solo se si costringe la macchina umana ad andare con quel carburante.

«Tra l’altro, un’altra scoperta dell’anno scorso ci dice che i recettori cerebrali degli zuccheri sono uguali a quelli degli oppiacei; difatti, lo zucchero è una sostanza assuefante e chi si è abituato ad assumere tanti zuccheri, nel momento in cui non ne mangia soffre notevolmente».

Una sorta di droga. 

«Sì, una droga a tutti gli effetti. Se si fa una risonanza magnetica al cervello a due persone, una che ha assunto oppiacei e un’altra che ha mangiato zuccheri, il disegno che si vede dei recettori è uguale. Non solo, ma ad aumentare il bisogno di consumare lo zucchero c’è il fenomeno glicemico. Se una persona mangia sempre tanti zuccheri, bastano circa tre ore per rischiare di andare in ipoglicemia. In questi casi, o si mangiano zuccheri per contrastare l’ipoglicemia, o non si sta in piedi oppure si diventa nervosi. Il grasso si consuma invece più lentamente. Per fare un esempio non esistono le lampade a zucchero, ma a olio. Diciamo quindi che lo zucchero non è il cibo dell’uomo, o meglio i carboidrati fibrosi certamente lo sono, ma quelli amidacei vanno consumati con cautela.

«Il piatto che li contiene deve essere ben preparato, con un carico glicemico basso, che si ottiene aggiungendo verdure e grassi in buona quantità ai carboidrati amidacei. Comunque i carboidrati non sono certamente il cibo principale dell’uomo: storicamente sono il cibo dei poveri. Basti pensare ai contadini che una volta mangiavano molto pane o polenta, oppure agli asiatici che mangiano una coppa di riso. Questo succede non perché sia più sano, ma perché non possono fare altrimenti».

Le diete a basso tenore di carboidrati possono provocare un aumento del carico renale? 

«Assolutamente no. C’e molta confusione su questo. Una dieta ricca di alimenti a basso indice glicemico, non necessariamente diventa iperproteica. La carne non sostituisce i carboidrati, questo lo fanno i grassi. C’è bisogno di apporto calorico, che può essere preso dai grassi. Ci sono due tipi di grassi: di origine vegetale e animale, che non provocano assolutamente alcun carico renale. Sono piuttosto le quote proteiche a determinarlo, ma ripeto non sostituiscono i carboidrati. La sostituzione calorica dei carboidrati amidacei viene effettuata con l’aggiunta di grassi di buona qualità animali e vegetali, cercando di averli da produzione biologica. Comunque i carboidrati si mangiano lo stesso. Basti pensare alle verdure in generale e a quelle dolci in particolare come la zucca gialla, porri, cipolle, ecc. o alla frutta. Alla base di tutto questo dovrebbero esserci scelte precise, ossia comprare biologico; se si comprano prodotti animali o vegetali di produzione industriale, è facile andare incontro a tutta una serie di problemi aggiuntivi dovuti alla presenza di conservanti, coloranti ecc. nei cibi»

L’efficacia di questo approccio alimentare varia in base a certi fattori, come età, sesso, lo stile di vita? 

«Direi di no. Direi che questi sono fattori aggiuntivi che certamente incidono sulla salute dell’uomo. Direi che il problema è capire che in natura esistono quelle che si chiamano nicchie alimentari. Ogni essere vivente ha una sua nicchia alimentare, che deriva dalla sua costituzione, da dove vive, eccetera. Il formichiere non si sognerebbe mai di prendere il latte e il cappuccino al mattino. Il problema è definire l’uomo dal punto di vista alimentare, cosa ha sempre mangiato per il suo benessere, cosa può quindi essere utile, cosa è edibile per lui e cosa non lo è. Oggi si dà per scontato che i carboidrati amidacei siano l’elemento base per l’alimentazione umana. Questo è un errore! L’uomo ha circa 1,5 milioni di anni di storia e negli ultimi 7-10 mila ha cominciato a mangiare carboidrati. Poi l’uomo non ha mai assunto latticini, salvo il latte materno. Dire che i latticini sono la base dell’alimentazione umana è un errore e questo si può dimostrare. I latticini, come i carboidrati amidacei, sono fortemente problematici per le intolleranze. Il 75 per cento della popolazione mondiale è intollerante in misura maggiore o minore a queste due sostanze, mentre il 25 per cento le può tollerare.

«Il problema è definire qual è la nicchia alimentare dell’uomo. È chiaro che se l’uomo non si discosta dalla sua nicchia, avrà meno problemi di salute e vivrà di più, indipendentemente dal sesso e dall’età. Se invece l’uomo si discosta fortemente dalla sua nicchia alimentare, incorre sicuramente in qualche problema di salute. L’Oms ha ormai parlato chiaro: la maggior parte delle patologie dipende dall’alimentazione. Questo è abbastanza ovvio, basta fare una semplice considerazione: se uno smette di mangiare è evidente che muore dopo 30-40 giorni. Una persona è quindi viva perché mangia. Come si può pensare che la qualità di quello che si mangia non determini la qualità di vita?»

A proposito di nicchie alimentari, mi viene in mente che certi approcci alimentari possono funzionare meglio su alcuni gruppi di individui, come gli europei o gli asiatici. Esiste un concetto simile?

«Esiste un concetto interessante: la costituzione. Tutte le medicine tradizionali parlano di costituzione. Siamo composti da elementi naturali, ma la loro mescolanza origina una struttura di un tipo, piuttosto che un’altra. Quindi, essere fatti in un modo o in un altro comporterà alcuni vantaggi per certe attività e svantaggi per altre. Comunque esistono principi generali che valgono per tutti. Le medicine tradizionali hanno studiato nel dettaglio le costituzioni. Si può quindi dire che per l’uomo la nicchia alimentare sia piuttosto ampia; poi, nell’ambito di questa nicchia esistono variazioni.

«Pertanto sulla base per esempio di fattori quali l’età, il sesso, l’attività, eccetera, è meglio spostare leggermente i dati alimentari in una certa direzione, ma sempre tenendo conto che la nicchia alimentare dell’uomo è quella».

Esistono quindi delle regole generali per l’uomo. 

«Sì, perché a livello fisiologico noi umani siamo tutti uguali. Poi esistono delle peculiarità, per esempio nell’ambito delle etnie e poi peculiarità legate a ciascuno di noi, dovute per esempio al tipo di psiche di una persona, alle sue abitudini, all’attività e magari anche al tipo di patologie acquisite»

Si può ridurre il grasso viscerale e in che modo?  

«È importante eliminarlo, non ridurlo. Si può fare andando verso un’alimentazione chetogenica rispetto a quella zuccherina. Poi, ormai si è visto che per ottimizzare l’attività metabolica umana non è sufficiente l’alimentazione, ma va combinata con l’attività fisica. L’uomo, essendo dal punto di vista alimentare un raccoglitore-cacciatore, si prevede che quantomeno camminasse (attività aerobica) e ogni tanto facesse notevoli sforzi (attività anaerobica) per cacciare, sollevare tronchi e pietre per cercare larve d’insetti, eccetera»

Sulla base di quello lei ha detto, mi viene in mente che un’attività fisica corretta per l’uomo dovrebbe prevedere un’attività blanda prolungata, alternata ogni tanto a qualcosa di intenso e breve. 

«Sì, esistono infatti due attività. Quella aerobica in cui basta camminare e non correre, altrimenti il corpo si usura rapidamente; questo perché l’uomo essendo raccoglitore doveva camminare e quindi preferiva camminare e basta. Se poteva non correva, lo faceva al massimo se doveva salvarsi la vita da un predatore. Poi in certi momenti, quando si trovava nei boschi, doveva fare certe attività, come sollevare tronchi e pietre oppure spostare oggetti, quindi la muscolatura era ben sviluppata. Queste sono attività di tipo anaerobico, attività intense e di breve durata, che forniscono stimoli ormonali adattativi con effetti sulla muscolatura e su tutto il resto del corpo. Perciò se si vuole fare un cambiamento nello stile di vita è giusto adottare una corretta alimentazione, un sano riposo e introdurre attività fisica regolare, di tipo aerobico e anaerobico. Se non si fa, chiaramente non si ottimizzano le funzioni dell’organismo. Questo è utile anche in condizioni di patologia, non solo come prevenzione; è curativo, poiché riportare la struttura alle sue migliori funzioni significa tendere a curare qualsiasi patologia presente».

Ritornando a prima, nelle diete tendenti alle chetogeniche, quando si vuole eliminare il grasso viscerale, è opportuno ridurre i carboidrati amidacei, ma non quelli fibrosi giusto?  

«Assolutamente sì. I carboidrati fibrosi rappresentano dal punto di vista volumetrico almeno il 70 per cento di quello che si mangia. Dal punto di vista calorico i grassi sono fortemente rappresentati, mentre dal punto di vista volumetrico i tre quarti di un piatto devono essere costituiti da frutta e verdura. Poi chiaramente le verdure vanno preparate e in questo caso si aggiungono grassi alle verdure stesse. Però il volume di quello che mangiamo sono le verdure e poi la frutta, che è molto più stagionale a differenza delle verdure che sono maggiormente presenti durante tutto l’anno»

«I grassi sono stati colpevolizzati, ma ormai sono usciti lavori scientifici che dimostrano quanto questo non sia corretto. Già negli anni 60 ci sono stati studi scientifici che hanno colpevolizzato il colesterolo che invece non fa assolutamente male, anzi fa bene, è indispensabile! Bisogna avere tanto colesterolo; tra l’altro sarebbe un assurdo biologico se facesse male, dal momento che il 75 per cento del colesterolo lo produce il fegato. Quindi se facesse male, ci troveremmo di fronte a un assurdo biologico. Il problema grosso del colesterolo sono le diete iperglicidiche e povere di carboidrati fibrosi che per l’appunto, essendo ricchi di vitamine e sali minerali, hanno un effetto antiossidante protettivo sul colesterolo stesso. Un’alimentazione povera di queste ultime sostanze e nel contempo iperglicidica, fa male poiché determina un’alterazione del colesterolo circolante che da prodotto indispensabile, essenziale e utile per la formazione di ormoni e di membrane cellulari, diventa patogeno e aterogeno [causa cioè l’ispessimento interno dei vasi sanguigni, condizione conosciuta come ateroscelrosi, ndr]. Questo succede però quando il colesterolo subisce un processo di ossidazione e glicazione, ossia quando viene modificato a causa della presenza di eccessivi zuccheri e la contemporanea carenza di verdure e frutta. Pertanto non è il colesterolo il problema, è il danno che subisce il colesterolo stesso che lo rende poi patogeno. Il colesterolo non va abbassato ma gestito in maniera opportuna, non va lesionato: non deve essere né ossidato, né glicato».

Prima ha spiegato che esistono delle regole alimentari che valgono per tutti gli esseri umani. Quali consigli si sente di suggerire per una sana alimentazione, al di là del semplice dimagrimento?  

«La massa fisica di una persona deve essere opportuna per dimostrare buona salute. Le regole sono  piuttosto semplici. In Italia abbiamo un grosso problema, che all’estero forse non esiste: la prima colazione è assurda. Non esiste infatti popolo al mondo che mangia dolce e basta, tutti fanno un pasto completo. Fondamentalmente da noi la colazione è iperglicidica, quindi va eliminato quel tipo di colazione. Si può anche saltare la colazione e mangiare due volte al giorno e perfino una volta al giorno seguendo schemi ormai consolidati che vanno sotto il nome di digiuno intermittente. Più si mima l’uomo primitivo e meglio è; quando cercava da mangiare, magari non trovava nulla e poteva stare anche 3-4 giorni senza mangiare».

Quindi secondo lei l’uomo moderno può fare il digiuno intermittente senza incorrere in problemi di salute? 

«Certo. Ventiquattro ore di digiuno sono addirittura desiderabili poiché si è scoperto che il digiuno intermittente è un elemento fondamentale nelle dinamiche corporee, negli equilibri e per curare patologie. L’alimentazione è anche questo: può essere gestita non soltanto in termini quantitativi e qualitativi, ma anche in termini temporali. La distribuzione temporale dei cibi gioca un ruolo enorme in termini di capacità di autorigenerazione del corpo. Quindi la colazione all’italiana andrebbe dimenticata. Se una persona vuole fare colazione può mangiare; ma pesce e verdura, o carne e verdura oppure uova e verdura. Vanno poi rivalutati i frutti oleosi come le mandorle e le noci, eccetera. E si può aggiungere la frutta stessa.

«Comunque i carboidrati vanno assunti sempre, anche la mattina. Lo stesso discorso vale per gli altri pasti: devono essere composti da verdure e piccole quantità proteiche e da grassi. Dal mio punto di vista è meglio aggiungere sempre quote proteiche animali, meglio pesci e se sono azzurri ancora meglio. E poi grassi: olive, noci, mandorle, avocado, cocco, olio di cocco e ghee (burro chiarificato), un grasso di origine animale ma buonissimo, un grasso saturo. Come si è detto i grassi saturi fanno bene, non male! Ovviamente dipende dalla loro qualità. Questa è l’alimentazione base. Se si vogliono aggiungere carboidrati amidacei perché piacciono, è meglio optare per quelli non glutinosi come fanno gli orientali, ossia a contorno; un pugno di riso a contorno, meglio se basmati integrale perché è a medio indice glicemico. Oppure qualsiasi carboidrato amidaceo, ma deve essere un contorno e non come in Italia cioè il piattone, poiché il picco glicemico è altissimo e la risposta insulinica necessaria è altrettanto alta.

«Poi c’è il problema che la pasta è bianca, quindi è un prodotto lavorato rispetto al grano; magari la farina è stata macinata 3 o 4 mesi prima e di conseguenza i prodotti da essa derivati rischiano di essere ossidati. Inoltre se la farina è integrale c’è un altro problema, poiché se c’è il germe del seme, essendo ricco di acidi grassi polinsaturi, irrancidisce. Ma se è pasta bianca non ci sono più nutrienti, salvo gli zuccheri.

«In Italia è presente un fenomeno stranissimo, assurdo e che non esiste all’estero: abbiamo ormai bambini obesi e denutriti allo stesso tempo. Questo è dovuto all’alimentazione ovviamente. Succede quando un bambino mangia molti zuccheri e poco se non addirittura niente altro, quindi pane, pasta e pizze. Succede che poi magari i genitori si rivolgono a uno specialista e dicono che il bambino non vuole le verdure. Diventano obesi poiché l’alimentazione iperglicidica determina obesità, però se fanno un controllo più attento li trovano denutriti: mancano grassi, proteine, sali minerali, vitamine, manca tutto. C’è solo zucchero. Questo è un fenomeno tutto italiano».

Interessante. Generalmente le persone quando vedono una persona in carne esclamano: “Come sei ben nutrito!” 

«No, assolutamente no. È il contrario. Spesso le persone grasse che diventano tali per l’abuso di carboidrati amidacei, sono fortemente denutrite. Per esempio mancano di omega 3, che sono acidi grassi essenziali. Nell’alimentazione di essenziale ci sono elementi presenti nelle quote proteiche (aminoacidi) e certi acidi grassi essenziali appunto che si trovano nei grassi stessi. Il resto il corpo lo può produrre da sé. Poi, lo zinco, il selenio, il germanio, eccetera ci sono? Quindi si va in carenza nutrizionale, nonostante si possa essere obesi. Purtroppo l’alimentazione, ancora oggi, viaggia per luoghi comuni e non per conoscenze specifiche. La riflessione dovrebbe essere: “Sono vivo perché mangio, se smetto di mangiare muoio”. Evidentemente è molto importante quando ci si siede a tavola, si fa una cosa molto importante per la vita. Se si sbaglia, non ci si può meravigliare se insorgono patologie. A quel punto, quando si è malati, ci si cura, si prendono medicine, eccetera. Ma questo sarà curativo? Rischia di esserlo solo parzialmente, poiché se la causa è in quello che mangiamo, bisogna correggere questa causa. L’alimentazione non è soltanto preventiva ma anche curativa. Nel caso di patologie conclamante, è importante e indispensabile alimentarsi in modo.

«In chiusura ci tengo a precisare che non si può passare da un’alimentazione iperglicidica a una chetogenica in tre giorni, il corpo ha bisogno di un tempo di adattamento che combinato a un’attività fisica, richiede circa tre mesi. Questo perché il corpo si deve abituare a utilizzare principalmente grassi per il suo funzionamento e non può essere sottoposto a stress rapidi. Quindi va fatta una transizione dove si riducono gli zuccheri e si aumentano i grassi. Gradualmente, con l’attività fisica, il corpo impara a utilizzare principalmente i grassi a scopo energetico, ma non lo può fare dalla mattina alla sera, questo è evidente. Questo va detto, perché non ci si lasci prendere da facili entusiasmi»

 
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