Cina, via 39 miliardi a luglio

Tutto sembra andare bene in Cina, eccetto forse per i default sempre più frequenti. La moneta sale di quasi l’uno percento rispetto al dollaro, in confronto allo scorso mese, e le riserve di valuta estera sono diminuite solo di 4,1 miliardi di dollari: ne rimangono ben 3,2 mila miliardi.

Pur essendo lontani i giorni in cui le riserve diminuivano a tripla cifra (più i nove zeri) al cambio dell’anno, se si guarda oltre la superficie, il quadro non appare poi così roseo.

«Le nostre stime preliminari sulle operazioni relative alle riserve della Banca Popolare Cinese – afferma l’Istituto di Finanza Internazionale in una relazione – evidenziano che il deflusso di capitale netto di luglio ammonta a 39 miliardi di dollari: è il deflusso maggiore negli ultimi sei mesi».

Quindi, tutti i soldi derivanti dall’esportazione dei prodotti cinesi, e anche di più, sono rimasti all’estero. «Non vogliamo sovrastimare l’importanza dell’aumento, in un mese, dei deflussi di capitale – continua l’Istituto – ma continuiamo a segnalare che le preoccupazioni degli investitori per il contesto politico e per l’andamento della crescita economica, continueranno a influenzare il ritmo dei flussi di capitale verso la Cina».

 

(IIF)

Worth Wray, capo economista dello Sta Wealth Management, ritiene che sia alto il rischio di vedere molto presto un ulteriore aumento della fuoriuscita di capitali. Alla base di questa opinione c’è il fatto che, sebbene in termini assoluti le riserve cinesi di moneta siano ancora elevate, e dovrebbero essere sufficienti per finanziare gli scambi, non dureranno a lungo, se i cinesi perderanno la fiducia nell’economia e porteranno denaro all’estero in grandi quantità: «C’è una differenza – ha spiegato a Bloomberg – tra avere sufficienti riserve per  bilanciare le spese ordinarie, e avere riserve adeguate per fronteggiare la fuga di capitali dovuta al panico dei cittadini. Voglio dire che le misure adottate non funzionano, e Pechino non può continuare a lungo su questa strada».

Wray mette a confronto le riserve valutarie con i depositi disponibili nel sistema bancario (derivanti dai risparmi delle società e dei cittadini), noti anche come aggregato monetario M2. Secondo i dati di Wray, il rapporto tra riserve valutarie e depositi è al suo livello più basso dal 2003: «Abbiamo visto una caduta allarmante nel rapporto negli ultimi anni. Era al 27 percento nel 2014, quando le riserve di valuta estera ammontavano a più di 4 mila miliardi di dollari, ma ora è vicino al 14 percento: ben al di sotto del limite consigliato [dal Fondo Monetario Internazionale, ndr] del 20 percento».

In altre parole, mentre l’M2 aumenta – i depositi in yuan non possono davvero lasciare la Cina, è il proprietario che cambia – in seguito alla concessione di nuovi prestiti, le riserve di valuta estera diminuiscono, perché i cittadini scambiano i soldi con dollari Usa o con altre valute estere.

Secondo la banca d’investimento Goldman Sachs, il 70 percento della fuoriuscita di capitale negli ultimi nove mesi è da attribuire ai residenti cinesi che comprano asset stranieri.

Questa stima è coerente con i dati di un sondaggio di FT Confidential Research: più del 60 percento degli intervistati ha affermato che sposta soldi all’estero per il principio di diversificazione (allo scopo di ridurre i rischi) e più della metà si aspetta che l’economia cinese rallenti ulteriormente; il 56,8 percento ha detto che, nei prossimi due anni, aumenterà i propri investimenti all’estero.

Il sondaggio ha confermato anche la tendenza dei cinesi a pagare gli asset a un prezzo maggiore del valore, e un terzo degli intervistati ha detto di essere alla ricerca di guadagni interessanti all’estero. Nel loro caso, sembra che conti di più il ritorno dei loro soldi, che non il ritorno sui loro soldi.

«Aaron Wu ha 31 anni e lavora nell’ambiente finanziario a Pechino. Ha investito più di un milione di dollari australiani (680 mila euro) lo scorso anno in un appartamento a Sydney, e altri 240 mila dollari australiani in azioni australiane, dopo aver perso più di un milione e mezzo di rmb [quasi 200 mila euro, ndr] sul mercato azionario di Shanghai. Il crash del mercato azionario interno è stato un momento cruciale, per la strategia di allocazione degli asset del signor Wu, secondo quanto lui stesso ha dichiarato».

La Cina ha cercato di contrastare questa tendenza rendendo più difficile lo spostamento dei soldi all’estero: il 67,6 percento degli intervistati nel sondaggio ha affermato che è diventato più difficile aggirare il limite dei 50 mila dollari.

Secondo Asia Nikkei, in un incontro privato del mese scorso, la Banca Popolare Cinese ha chiesto alle banche di cercare di fermare le transazioni internazionali, ma non ha reso pubbliche nuove disposizioni.
E non sono solo i cittadini a spostare i soldi all’estero: le società, i cui depositi sono inclusi nell’analisi sull’M2 riportata sopra, stanno anch’esse comprando asset stranieri, sfruttando al massimo le possibilità previste nei limiti legali.
Secondo un rapporto di PriceWaterHouseCoopers (Pwhc) citato dal China Daily, le società cinesi hanno acquistato, nella prima metà dell’anno, 493 aziende estere per 134 miliardi e 300 milioni di dollari: un aumento di quasi il 350 percento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

In realtà il regime, contrariamente all’atteggiamento adottato nei confronti dei cittadini, incoraggia le società a rilevare le aziende straniere, seguendo la politica dell’«andare fuori», indicata dal premier Li Keqiang.

«Le attività di fusione e acquisizione rivolte all’estero – afferma infatti Liu Yanlai del Pwhc, nel rapporto – costituiscono una tendenza irreversibile nel lungo termine».

 
Articoli correlati