Guerra informatica, in gioco l’economia e la libertà

«Pyongyang – ha detto lo storico Hyung Gu Lynn – ha capito che colpire l’economia oggi miete più vittime che destabilizzare la politica. Un gruppo di hacker, per il capitalismo, è più devastante di una testata atomica e chi assedia il web bombarda il pianeta».

La vicenda dell’attacco hacker alla Sony per boicottare l’uscita del film ‘The Interview‘ non smette di sollevare inquietanti interrogativi su un cyberterrorismo dal profilo ancora incerto. Quel che è certo per ora è la capacità del web di porsi come ambiente strategico di una ‘guerra informatica’ che si annuncia pericolosa. La ‘Pearl Harbor del 1° emendamento (la definizione è del giurista Alan Dershowitz) preoccupa Washington e tutto il mondo: in gioco, va da sé, c’è l’economia ma anche la libertà di espressione.

E mentre stiamo passando velocemente alla ‘mobile age (leggi il libro Rivoluzione mobile a cura di Roberto Brognara ) il giornalismo riflette su se stesso: se è vera la teoria di Nielsen secondo cui il 90 per cento degli utenti è fruitore passivo dei contenuti web, quale futuro aspetta il citizen journalism? (leggi anche Gabriele Balbi, Paolo Magaudda, Storia dei media digitali. Rivoluzioni e continuità, Editori Laterza, 2014).

E i social media, che potere hanno ancora di incidere sulla realtà, ponendosi come strumento di mobilitazione civile?

Il Foglio del 19 dicembre con il pezzo ‘Un hashtag non basta‘ avanza una posizione critica: «Al tempo di Twitter, le cause umanitarie dei divi di Hollywood durano quanto un hashtag, cioè pochi giorni, per poi rifluire nel fisiologico ciclo dell’indignazione da tastiera. Così, nonostante il fiorire di #bringbackourgirls, l’hashtag per chiedere la liberazione delle oltre 200 ragazze di Chibok, Nigeria, rapite ad aprile dal gruppo terroristico Boko Haram, nessuno è rimasto sul tema tanto tempo da accorgersi che dopo otto mesi ancora non sono state riportate indietro, le ragazze, e che in Nigeria la situazione peggiora, e i rapimenti continuano».

Non sempre Twitter è marginale però. Il movimento di protesta degli studenti contro Pechino, si è stretto intorno a vari hashtag (#OccupyCentral, #OccupyHK) e nei social network ha trovato una cassa di risonanza importante.

Al centro della scena, le reti mesh: l’uso della app FireChat, in particolare, lanciata daOpen Garden, ha consentito la formazione di una ‘Rete locale e distribuita, funzionante anche senza connessione Internet, e ha fatto il botto, raggiungendo nei giorni delle proteste 100mila utenti che l’hanno scaricata in 24 ore.

Tre anni dopo lo scoppio della rivoluzione, un articolo di Arab Media Report fa il punto sulla Siria e l’uso del web. Dalla sperimentazione disordinata ma urgente della prima fase all’approdo ad una comunicazione più strutturata e consapevole del dopo rivoluzione, oggi si trova in Rete un fiorire di aggregatori web, siti di informazione, agenzie stampa on line ecc. per rendere i contenuti più fruibili agli utenti. E non mancano neppure atteggiamenti critici e prese di distanza prudenti verso i social network, che hanno giocato comunque un ruolo di primo piano nelle rivoluzioni arabe.

Anche nel caso della rivoluzione in Ucraina, il web ha avuto una parte da protagonista: la rivoluzione è stata trasmessa in televisione attraverso Internet grazie a Espreso TV. Un live streaming da una emittente privata che si è potuta avvalere anche del sostegno di Twitter, che ha fatto rimbalzare più e più volte il link alla diretta. «Grazie alla funzione just:in di ToolsOnAir – sono parole di TVB Alexander Korostyshevsky, il direttore tecnico di Espreso TV – siamo in grado di raccogliere filmati da più telecamere contemporaneamente, editarli e creare una EDL (edit decision list) in tempo reale».

Se Twitter ha affiancato uno streaming trasmesso da una giovane e intrepida media company, c’è chi attribuisce al social concorrente di Facebook anche capacità ‘divinatorie‘: addirittura uno strumento in più che gli analisti avrebbero per prevedere proteste o rivolte.

Qualche mese fa Facebook è salito agli onori della cronaca anche nel caso di ‘Israele e la protesta del budino al cioccolato‘: un cittadino israeliano poco più che ventenne residente a Berlino posta un confronto eloquente sui prezzi di alcuni prodotti alimentari a Berlino e a Israele. Spicca fra tutti il Milky, un semplice budino al cioccolato ben noto ai palati degli abitanti di Israele, ignari però che lì il ghiotto alimento costa il 500 per cento in più rispetto ad un analogo prodotto a Berlino. Il giovane invita i suoi connazionali a fare le valigie e volare a Berlino per il minor costo della vita, il suo post arriva a 1 milione di persone e diventa un caso nazionale, sollevando un polverone. Sul caso ci aggiorna Il Post.

Intanto, per difendere il libero accesso ad Internet si continua a manifestare: ad ottobre in Ungheria la piazza di Budapest si è animata con migliaia di ungheresi arrabbiati contro il governo del primo ministro Viktor Orban e della sua proposta di legge per far pagare una tassa agli Internet service provider (si parlava di 150 fiorini ogni gigabyte di traffico).

Il premier ha poi fatto dietrofront e la web tax non gradita al popolo è stata archiviata. O meglio, il tema è rimandato al prossimo gennaio, ‘in una consultazione nazionale. Anno nuovo, tasse nuove.

Articolo pubblicato originariamente da Antonella Sinopoli per il sito web di Voci Globali.Leggi qui l’articolo su Vociglobali.it

I punti di vista espressi in questo articolo sono le opinioni dell’autore e non rispecchiano necessariamente il punto di vista di Epoch Times.

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